Non dimentichiamo le bambine

di Raffaella Vitulano

Violenza sui bambini. Su quelli che cuciono i palloni con piccole dita esperte e consunte da aghi arrugginiti. Violenza sulle bambine a cui è negata l’istruzione e l’opportunità economica, mentre spesso sono impegnate in lavori pericolosi e non protetti, tra cui le moderne forme di schiavitù.
Che poi, di quelle bambine, diciamolo, si parla meno. Molto meno. E oggi voglio parlarne. Proprio oggi, sì, perchè da domani molti uomini assisteranno ai mondiali di calcio. E alcuni di loro, poi, magari in India, mentre il mondo distratto guarderà stadi, uomini in campo e perizomi brasiliani, usciranno a cercare donne fragili e discriminate, di casta inferiore, per sfogare sui loro corpi martoriati la violenza, tra terreni aridi e pozzanghere monsoniche e impiccarle ad un albero di mango, come di recente avvenuto in un villaggio dell’Uttar Pradesh.
Boati maschili risuoneranno in tutto il pianeta per ogni goal segnato. Ma per quelle innocenti nessuno alzerà mai abbastanza la voce. Quando nascono, e per solo fatto di essere donne, molte neonate vengono gettate nelle fogne, come fagotti ingombranti di una società troppo assuefatta per scuotersi dal torpore e dall’autismo finanziario. A otto, dieci anni, verrà imposto loro un matrimonio di convenienza con uomini padroni. E molte famiglie indiane dalit (senza casta) acconsentiranno per necessità. Intorno, un deserto di desolazione e povertà. A Bombay come nelle favelas di Rio.
L’assenza di servizi igienici spinge le bambine, le donne, ad andare nei campi appena dietro casa. E proprio lì, spesso, mentre sono rannicchiate e assorte, tra l'afa e i vapori del terreno, le sorprendono gli stupratori. Macellai in branco. A volte assassini. In India, uno stupro ogni 22 minuti. Eh no, lo stupro non può essere, come ha detto un ministro, ”un crimine relativo; a volte ci sta, a volte è sbagliato” da parte di ragazzotti esuberanti. Lo stupro è sempre un crimine; una bestemmia raccapricciante che le istituzioni pronunciano contro Dio ogni volta che abbandonano in solitudine le donne, indiane o non. Una parabola dell’umanità che offusca e paralizza per l’orrore, ma che richiede condanna ferma e non cultura di omertà.
Lì, tra quei campi, molte donne vengono uccise anche da presunti militanti indipendentisti che fracassano loro la testa a colpi di fucile automatico per avere resistito ad un tentativo di stupro. E a volte proprio lì, tra quelle gambe sanguinanti e ormai inerti, laddove si genera la vita, le donne trovano la morte. Giacciono nel silenzio assordante di un mondo sbadato e smemorato, seduto di fronte agli schermi televisivi, di un tablet o di un computer.
Eppure altri uomini, i loro padri, spesso si scontrano con gli uomini della polizia appena verificano la scomparsa delle loro figlie.
Umiliato, in ginocchio, il padre in lacrime supplica quelle divise di fare qualcosa. Qualcuno dietro la scrivania, con sguardi complici e di scherno dimentica in quel momento esatto le madri, le sorelle. Gli ride in faccia sopra l’audio di un televisore svalvolato anni ’80, ricordandogli che i violentatori delle figlie appartengono ad una casta superiore ed intimandogli di andarsene. Gli uomini senza casta s’aggrappano allora alla speranza. Cercano nell’indignazione, oltre l’orrore che ormai si fa strada nella loro mente, quelle figure familiari. Per poi ritrovarle, asfittiche, stuprate, in due figure rigide penzolanti da un ramo.

Commenti

Post più popolari