Ma la corsa al riarmo crea davvero occupazione?

di Raffaella Vitulano

Giovanni Dosi, Direttore dell’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, ricorda il ruolo centrale che lo Stato ha avuto nella generazione della maggior parte delle nuove tecnologie che utilizziamo oggi: Internet, il web, il microprocessore, l’iPad e così via. In Italia - aggiunge Dosi - anche prima del liberismo selvaggio, molte delle politiche sono state anti-industriali: ”Dal rifiuto da parte del governo di appoggiare l’Olivetti all’inizio degli anni sessanta – probabilmente sotto pressione americana – alla finanziarizzazione della Montecatini, dalla distruzione della Montedison, alla liquidazione dell’Iri, fatta in un giorno sullo yacht Britannia nel settembre del 1993 per avere pochi soldi, maledetti e subito, distruggendo un patrimonio tecnologico notevolissimo”.
Oggi in Italia ad avere laboratori di ricerca e sviluppo sono rimaste poche grandi imprese, come Finmeccanica (che continua ad essere una partecipata dello Stato) e STMicroelectronics.
Gianni Alioti, del dipartimento internazionale della Fim Cisl - sorride alla citazione del generale Dwight Eisenhower come monito ai fautori del “keynesismo militare” di sinistra o del “liberismo spurio” di destra. ”Va ricordato, infatti, che - spiega - Eisenhower durante la sua presidenza, oltre imporre “la tassazione marginale sui redditi dei più ricchi al 92% e quella sui profitti al 60%” ha ridotto le spese militari dal 1954 al 1956 di quasi il 32 per cento, da 526 a 359 miliardi di dollari a valore costante. E questa misura costituisce, forse più di qualunque altra, la ragione della crescita economica maggiore di tutta la storia degli Stati Uniti”. Alioti ricorda come negli ultimi 20 anni sono state prese decisioni di politica industriale che, progressivamente, hanno rovesciato il mix delle attività di Finmeccanica a favore del militare. ”Vorrei ricordare che Finmeccanica nel 1995, dopo aver incorporato nella seconda meta’ degli anni ’80 le aziende aeronautiche e militari dell’ex-Efim e le aziende elettroniche dell’ex-Stet, per il 75% operava nel civile, in aree di eccellenza e leadership globale come l’automazione industriale e di fabbrica (Elsag-Bailey) e nella microelettronica (Stm), oltre che in aree consolidate come l’energia e i trasporti. La logica di far cassa inizia con lo smantellamento di Elsag-Bailey nel 1997 e arriva ai nostri giorni con la cessione di energia (Ansaldo) e trasporti (AnsaldoBreda e Sts). E nel frattempo sono state cedute tutte le quote che si avevano come Finmeccanica in ST Microelectronics, l’azienda italiana che più investe in ricerca e sviluppo in proporzione al suo fatturato. E quanto successo a Telecom con l’avvento dei privati è avvenuto in Finmeccanica con i decisori politici. Il risultato dal punto di vista della ricerca e sviluppo, in campi che non fossero militari, e’ stato lo stesso. Basti pensare al posizionamento strategico a livello internazionale dei laboratori di ricerca dello Cselt di Torino (Telecom) e dell’Elsag di Genova nel campo dell’intelligenza artificiale.”
La corsa al riarmo vede oggi protagonista l'Europa, dove i paesi Nato con un budget militare inferiore al 2% del pil (tra questi, Germania e Italia) si sono impegnati a raggiungere in modo graduale tale quota. Nel complesso, uno scenario dove le spese militari di molti Paesi, nonostante il rallentamento globale dell'economia, stanno aumentando più del pil, arricchendo in tal modo le entrate valutarie dei primi tre grandi produttori mondiali di armi: Usa, Russia e Germania. Da qualche anno le spese militari procedono col segno meno, dovuto in particolare alla flessione della spesa negli Stati Uniti, che negli ultimi dieci anni è stato comunque il Paese che ha coperto il 40% delle spese militari mondiali. La Germania pensa al riarmo e rivede il suo pacifismo, La crisi ucraina ha ridato voce a chi pensa che Berlino debba spendere di più per l’esercito. Oltre alla Germania, un'altra potenza che progressivamente si sta armando è la Cina, secondo paese del mondo nella spesa militare, con 188 miliardi (+107% negli ultimi dieci anni) di dollari nel 2013 secondo le stime dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), così come il Giappone e la Russia di Putin, che negli ultimi dieci anni ha visto salire la spesa militare del 108%.
E’ ancora il Sipri a stilare una classifica della top 10 dei produttori mondiali di armi (esclusa la Cina): Lockheed Martin, Boeing, Baes Systems, Raytheon, Northrop Grumman, General Dynamics, Eads, United Technologies, Finmeccanica, Thales. Attentati e conflitti riguardano soprattutto i Paesi poveri e gli affari di chi vende armi languono. Se a morire in conflitti e attentati sono soprattutto abitanti di Paesi poveri, uccisi da persone di Paesi altrettanto poveri, i soldi che girano non sono proprio pochi, per quanto in flessione negli ultimi anni e ora in ripresa. Uno studio della società di consulenza Deloitte del maggio 2014, prima della proclamazione del Califfato in Siria e Iraq da parte di Abu Bakr al-Baghdadi, lo scorso giugno, e ovviamente prima della strage di Charlie Hebdo a Parigi, insisteva sulla riduzione del rischio di terrorismo nel Paesi sviluppati. Questo non significa che gli attentati si siano ridotti. Tra il 2006 e il 2012, il loro numero è triplicato, da 2.700 a oltre 8mila. Ma di questi il 99% è avvenuto in Paesi che non fanno parte dei top-50 per livello di spesa militare.
Le differenze tra Paesi ricchi e poveri si vede anche nella corsa agli armamenti. Quelli a basso reddito (con un reddito annuo medio inferiore ai 30mila dollari) stanno spendendo di più, in particolare quelli che impiegano nella Difesa più del 3% del Pil. ”Con ulteriori tagli previsti in Occidente e il declino dei ricavi da petrolio che stanno facendo abbassare la crescita nel Medio Oriente, la spesa per la difesa si potrebbe contrarre nel 2015”, scrive in una nota recente Ihs-Jane’s. La società di ricerca stima che il budget militare globale scenda a circa 1.600 miliardi di dollari nel 2015 dai 1.747 miliardi del 2013, stimati ancora dallo Stockholm International Peace Research Institute. Anche una recente indagine della società di consulenza McKinsey ha parlato di un mercato in contrazione.
Le spese per gli aerei militari sono non a caso quelle che sono cresciute di per i Paesi ad alto reddito e spesa militare inferiore al 3% del Pil (come l’Italia), mentre sono scese negli altri settori: soldati, carri armati, navi da guerra. In questa industria, come nelle altre, si punta sull’innovazione tecnologica e si risparmia sulle risorse umane. Droni e hi tech consentono risparmi sul personale e sui soldati. E se proprio servono, molti si affidano ormai ai mercenari, dimenticando il ruolo e gli investimenti in formazione d’eccellenza dei militari professionisti. Sempre secondo l’Ihs, i prossimi cinque anni vedranno continuare il cambio di paradigma degli eserciti mondiali.
Le ricerche sul mercato mondiale delle armi, condotte da istituti internazionali e da grandi banche d'affari, concordano: entro il 2019, per la prima volta nella sua storia, i Paesi della Nato scenderanno sotto la metà della spesa mondiale, mentre fino al 2010 ne rappresentavano i due terzi. Entro il 2020 la spesa per la Difesa in Asia e Pacifico supererà quella degli Stati Uniti. Paesi come la Cina saranno avvantaggiati in questo dalla discesa del petrolio, che invece ridurrà gli investimenti in armamenti nel Medio Oriente e Nord Africa, almeno nel breve periodo (l’analisi non si avventura in previsioni a lungo termine). L’India diverrà il terzo mercato per armamenti al mondo entro il 2020. Come prevedibile - riporta Linkiesta - i prossimi anni vedranno anche una crescita della difesa dagli attacchi di cyber-terrorismo, che nel 2013 hanno riguardato per il 60% Paesi ad alto reddito. La Corea del Sud ha varato il suo comando di cyberguerra già nel 2009, a causa di migliaia di attacchi ricevuti quotidianamente dai propri network militari. La Cina ha un’unità dell’esercito, la Unit 61398, che avrebbe attaccato 141 organizzazioni in 20 settori. Quando l’unità fu scoperta dall’opinione pubblica mondiale, il governo di Pechino disse che il ministero della Difesa e i siti collegati ricevevano 144mila attacchi da parte di hacker al mese, la maggior parte dei quali proveniente dagli Usa. La Nsa americana con il programma Shotgiant avrebbe colpito in particolare il colosso tecnologico Huawei. Spiega Deloitte che l’india avrebbe un programma che prevede l’addestramento di addirittura 500mila “cyberguerrieri” entro il 2017. Anche la Russia, secondo dei report citati da Deloitte, avrebbe un comando di cybersicurezza, che sarebbe entrato in azione durante l’invasione della Crimea. In questo contesto la previsione della società di consulenza è facile: le cyber-operazioni non sono più un dominio delle 50 nazioni più ricche e le possibilità di attacchi si estendono. I ministeri della Difesa dei Paesi sviluppati avranno bisogno di attrezzarsi di fronte alle nuove minacce del cyberterrorismo.
E l’occupazione? I dati - si sa - non si possono prendere a schiaffi. ”Chi continua, quindi, a sostenere gli investimenti in campo militare per le ricadute occupazionali o per scelte economiche-industriali, dice semplicemente delle cose non vere”, commenta Gianni Alioti, responsabile internazionale della Fim Cisl. ”E non solo perché le stesse risorse impiegate in campi civili garantirebbero moltissimi posti di lavoro in più, una maggiore efficienza dei fattori della produzione e un recupero di produttività del sistema economico. Ma perché, nonostante si sia verificata una crescita delle spese militari e dei relativi fatturati e affari delle imprese, il numero degli occupati nel settore della produzione militare non è aumentato, anzi ha subito un’accentuata contrazione ed è destinato a contrarsi ulteriormente”. Ciò dipende da tre diversi fattori.
Il primo è un fattore comune ad altri settori dell’industria manifatturiera: dalla siderurgia all’elettronica. E’ la crescita costante del fatturato per addetto (competitiveness) che, ad esempio, nell’industria aeronautica europea è aumentato dal 1980 al 2010 del 155 per cento passando da 90 mila a 230 mila euro per occupato).
Il secondo fattore, anche questo comune al resto dell’industria, è la riduzione del numero di occupati per effetto dei processi di fusione, ristrutturazione e innovazione tecnologica su scala europea e mondiale, spinto dai processi d'integrazione regionale e dalla globalizzazione.
Il terzo, infine, è un fattore specifico riguardante solo l’industria militare, definito tecnicamente “disarmo strutturale”. E’ un fattore indotto sì dall’innovazione tecnologica incorporata nei nuovi sistemi d’arma (dai nuovi materiali alla microelettronica) e nei processi di produzione (automazione integrata e flessibile), ma soprattutto dal consistente aumento dei costi di ricerca, sviluppo e fabbricazione. ””Il caso del programma JSF F35 è rappresentativo. Rispetto al costo iniziale di 62 milioni di dollari per aereo previsto dalla Loockeed Martin - aggiunge - si è arrivati a 170 milioni di dollari del gennaio 2011. Costi che sono destinati ancora ad aumentare, per i ritardi nel progetto e per la riduzione prevista degli ordinativi (e quindi dell’economie di scala). Ne deriva un aumento dei costi unitari per sistema d’arma, che a sua volta significa una diminuzione, a parità di spesa, della quantità d’armi che può essere acquistata dalle Forze Armate. Questa tendenza spinge in una sola direzione: contrazione dei volumi (non del valore) di mercato e ulteriore sovra capacità produttiva dell’industria militare”.
E’ facile prevedere, infatti, per le imprese leader di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna, Svezia, Polonia ecc. un’accelerazione dei processi di concentrazione su scala europea e interatlantica. Le nuove acquisizioni, fusioni, joint-venture, alleanze internazionali comporteranno, inevitabilmente, una nuova riduzione delle capacità produttive, per effetto di razionalizzazioni impiantistiche, tecnologiche e di prodotto-mercato (in particolare nel comparto degli armamenti terrestri e navali), ma anche di delocalizzazioni produttive in paesi low-cost della catena di fornitura dell'industria aerospaziale e della difesa. ”Dietro la produzione militare ci sono migliaia di ricercatori, progettisti, operai. C'è sviluppo di tecnologie, ci sono ricadute economiche regionali in termini di occupazione, valore aggiunto e innovazioni. Non si può, quindi, non accompagnare questi processi con misure sociali di sostegno e con azioni di politica industriale coordinate a livello di Ue. A questo scopo va rilanciato un nuovo programma Konver a livello europeo, accompagnato da iniziative legislative nelle regioni direttamente interessate, che risponda a esigenze d’innovazione, conversione e diversificazione nel civile dell’industria militare, dettate - oltre che dall’auspicabile riduzione dei budget militari degli Stati - dalle misure d’integrazione europea nelle pratiche di approvvigionamento delle forze armate dei singoli paesi e dai processi di riorganizzazione e concentrazione delle imprese del settore”.
Nell’industria aerospaziale e della difesa, nonostante che dal 1998 ci sia stato un aumento – in termini reali al netto dall’inflazione - delle spese militari, che hanno superato nel mondo (e negli Usa in particolare) i livelli altissimi raggiunti all’epoca della guerra fredda, l'occupazione è in continuo calo. Nella migliore ipotesi, solo per alcune aziende o per brevi periodi, l'occupazione è risultata stabile, ma a fronte di crescite a due cifre del volume d'affari e dei profitti. Anche in Italia per molti anni si è creduto che Finmeccanica, avendo spostato il suo baricentro nel militare (dal 30 al 60 per cento del suo fatturato totale dal 1995 al 2010), godesse di ottima salute. Ma la Fim Cisl segnala che migliaia di posti di lavoro stanno saltando nel comparto aeronautico e nell'elettronica della difesa, basandosi sui dati del rapporto annuale dell’Asd (AeroSpace and Defence Industries Association of Europe): l’industria aerospaziale europea è passata da 579 mila occupati nel 1980 a 458 mila e 700 nel 2010 (meno 20,7 per cento).
Se, però, disaggreghiamo la parte militare da quella civile, il risultato è sorprendente. ”Mentre - spiega Alioti - il personale dell’industria aeronautica europea occupato nelle attività militari passa dal 1980 al 2010 da 382 mila a 200 mila e 900 unità (il 47,4 per cento in meno), quello occupato in campo civile, invece, è cresciuto nello stesso periodo da 197 mila a 257 mila e 800 unità (il 30,8 per cento in più)”.
Chi conosce bene il settore aeronautico sa che dietro a questi numeri c'è il successo del più importante programma industriale e tecnologico sviluppato a livello europeo: l’Airbus. Il nostro paese – per responsabilità dei Governi e del management di Finmeccanica - alla fine degli anni’70 e in fasi successive ha fatto la miope scelta di non partecipare, condannandosi – nel comparto dell’ala fissa (con la lodevole eccezione del turboelica Atr prodotto in joint venture con i francesi di Eads) - a un ruolo di semplice subfornitore dell'industria aeronautica americana (Boeing e Lockheed Martin). Non aver partecipato come partner di primo livello alla realizzazione di Airbus è costata la marginalità dell'industria italiana nell’ideazione, sviluppo e produzione di aerei commerciali civili. Al mancato risultato sul piano tecnologico si aggiunge la mancata creazione di nuovi posti di lavoro”.
Se nel resto d’Europa (in particolare Francia, Germania e Spagna), infatti, il calo degli occupati nel militare è stato in parte compensato da una crescita nel civile, in Italia abbiamo solo registrato in percentuale la stessa perdita di posti di lavoro nel militare senza alcuna crescita nel civile (eccetto l’elicotteristica). E nel mondo è stato lo stesso. La Lockheed Martin, la principale industria di armamenti nel mondo, dal 2008 ha perso 30.000 posti di lavoro, passando da 146 mila a 116 mila occupati. Tutto ciò nonostante l’aumento esponenziale delle spese militari negli Usa. Nel novembre 2013 ha deciso l’ulteriore taglio di 4.000 posti di lavoro nel settore aeronautico. La Bae Systems, la principale industria di armamenti in Europa e la seconda al mondo, negli ultimi 3 anni ha perso 22.000 posti di lavoro, riducendo la sua occupazione nel mondo a 80.000 unità, di cui 38.500 in Gran Bretagna. Sono in corso ulteriori tagli di 3.000 posti di lavoro nel settore aeronautico e di 1.800 nei cantieri navali militari.

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