Tutto ha un prezzo. A volte troppo alto

di Raffaella Vitulano

Cambio di rotta. Qualcosa non quadra nella strategia dell’Amministrazione Obama e l’ex segretario di Stato Henry Kissinger, in un articolo pubblicato sul 'Wall Street Journal' spiega che l’operazione anti-terrorismo russo in Siria diretta contro lo Stato Islamico ha distrutto l’ordine politico del Medio Oriente, guidato da Washington per oltre 40 anni: ”La Casa Bianca dovrebbe agire in maniera più costruttiva e riconoscere che la distruzione dell’Isis è più importante di rovesciare Bashar al Assad”. Non sembra pensarla così Hakan Fidan, capo dei servizi segreti turchi, che in un’intervista all’agenzia di stampa spiega che è necessario aprire un consolato dell’Isis a Istanbul, per dar modo al Califfato di agire pubblicamente. Insomma, all’Isis serve un ufficio di rappresentanza in Europa.
”L’Emirato islamico è una realtà e noi dobbiamo accettare che non possiamo sradicare una istituzione bene organizzata e popolare come l’Emirato islamico: di conseguenza, urgo i miei colleghi occidentali di rivedere le loro opinioni sulle correnti politiche islamiche, di mettere da parte la loro cinica mentalità e di contrastare i piani di Vladimir Putin per schiacciare i rivoluzionari islamisti siriani”. Un messaggio piuttosto esplicito per Bruxelles, in particolare se si considera anche che negli stessi giorni la Cancelliera tedesca Angela Merkel si è recata in Turchia per stringere un accordo con Erdogan al fine di evitare nuove ondate di migranti e favorire l’ingresso di Ankara in Europa. Le parole di Fidan stridono con quanto sta avvenendo in Turchia, dove le autorità hanno dato la colpa all’Isis per le recenti stragi che hanno bersagliato pacifisti legati al partito curdo. Questo fa capire quanto la matassa geopolitica sia piuttosto annodata.
Kissinger richiama il governo degli Stati Uniti a riconoscere la necessità di un dialogo con le altre grandi potenze, sottolineando che ”si tratta di geopolitica non di ideologia. Qualunque sia la loro motivazione, le forze russe sono già nella regione e la loro partecipazione alle operazioni di combattimento sono una sfida per la politica statunitense in Medio Oriente, su una scala mai vista prima, almeno nel corso di quattro decenni”.
Secondo Kissinger, gli Stati Uniti d'America devono capire che ”la principale preoccupazione di Mosca è che il crollo di Assad possa riprodurre il caos della Libia, portare al potere lo Stato islamico a Damasco e trasformare tutta la Siria in un paradiso per i terroristi, che potrebbero poi raggiungere le regioni musulmane della Russia, del Caucaso e altrove”. Se non fosse che ormai il web mostra foto e documenti che spiegano come dietro la formazione dell’Isis (vedi la fornitura delle Toyota su cui sfrecciano i terroristi) ci siano anche gli Usa, ci sarebbe da credere ad un cambio di strategia di Washington. Ma forse non è così.
Conscio che l’opinione pubblica americana è stanca della guerra sin dalla débâcle in Iraq, Obama è stato costretto a cambiare semmai la sua retorica, da un cambio di regime in Siria alla lotta contro il terrorismo Isis. Ma la sostanza resta quella. Il forte allarmismo causato dalle brutalità Isis ha dato a Obama il consenso di cui aveva bisogno per rinnovare la guerra permanente americana in Iraq e fornendogli una porta d’accesso in Siria. Altro che dialogo. Basta pensare che gli Usa sono pronti ad approvare contratti per armi e navi con l’Arabia saudita per 11,25 miliardi di dollari; grazie all’accordo con l’Iran. Molti appaltatori della difesa americani si stanno preparando per un boom commerciale con i paesi arabi che spendono quantità record di denaro in armi. L’anno scorso l'Arabia Saudita aveva già speso 80 miliardi in armamenti e la palla passa ora al Congresso, che può o meno approvare la richiesta.
Zero Hedge analizza come la strategia Usa in Siria vada avanti da decenni come parte della guerra per metter fine al monopolio della Russia sulle forniture di gas all’Europa, ed è ampiamente documentata nelle comunicazioni diplomatiche riservate trapelate. Ora forse anche i media americani cominciano a mettere in dubbio l’autenticità delle motivazioni alla guerra. Nel frattempo tanti paesi sono distrutti e milioni di rifugiati si riversano in Europa e l’Isis continua a prosperare grazie alla vendita sotto banco di petrolio, con almeno 500 milioni di dollari incassati negli ultimi 12 mesi (fonte Financial Times in un’inchiesta che smonta le indicazioni dei servizi occidentali sull’impatto dei bombardamenti sulla capacità petrolifere dei jihadisti).
Piuttosto chiara l’analisi del New York Times, che ha pubblicato un pezzo dal titolo ”Le armi Usa stanno trasformando la Siria in una guerra per procura con la Russia”. L’articolo ammette che i ribelli siriani stanno ricevendo grandi quantità di armi dalla Cia che vengono utilizzate per combattere l’avanzata delle truppe di Assad, sostenute dalla Russia, mentre cerca di riprendere la Siria dai vari gruppi ribelli, islamici, e terroristi entrati in gran parte del territorio. Quasi nessuno della cinquantina di conflitti attualmente in atto nelle differenti aree di crisi risponde alla tradizionale concezione della guerra tra Stati condotta con norme giuridiche codificate, ma è costituito da guerre civili, di secessione, interne, ecc. dall'incerto quadro giuridico di riferimento, mentre dal punto di vista mediatico si parla di guerre silenziose, frozen, forgotten.
Oggi non assistiamo più ad un conflitto in cui due eserciti riconosciuti si fronteggiano sul campo di battaglia. Forze militari si oppongono a gruppi armati più o meno mercenari in un logorante e spesso interminabile e non risolutivo confronto: le cosidette guerre asimmetriche. Ma il conflitto armato è solo il braccio di una guerra finanziaria che i Trattati commerciali in discussione stanno definendo nei dettagli.
Slavoj Žižek, ricercatore sloveno all’Istituto di Sociologia dell'Università di Lubiana e Direttore del Birkbeck Institute for the Humanities presso l’Università di Londra, sostiene che ad esempio lo scenario generale dell’impatto sociale del Ttip (il Trattato commerciale in discussione tra tra Usa e Ue) è chiaro a sufficienza ed equivale a niente di meno di un assalto selvaggio alla democrazia. Lo si evince più chiaramente che mai nel caso delle cosiddette “Risoluzioni delle controversie tra investitori e Stato” (Isds) che autorizzano le aziende a querelare i governi nel caso in cui le loro politiche determinassero una perdita dei loro guadagni. Ciò significa che società multinazionali non elette possono imporre le loro politiche a governi democraticamente eletti.
Questi tipi di risoluzione sono già in atto in alcuni accordi commerciali bilaterali e possiamo ben vedere come funzionano. La società energetica svedese Vattenfall ha citato per svariati miliardi di dollari il governo tedesco dopo che ha deciso di eliminare gradualmente le centrali nucleari dopo il disastro di Fukushima: una politica di salute pubblica approvata da un governo eletto con un processo democratico è messa a rischio da un colosso energetico a causa di una possibile perdita di introiti.
Le multinazionali dettano l’agenda, i governi eseguono.
Si pensi alla crescente importanza del settore della tecnologia degli Stati Uniti negli affari mondiali. Il 26 settembre, il Ceo di Facebook Mark Zuckerberg ha parlato in occasione della riunione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. Il giorno dopo, Zuckerberg è volato al quartier generale di Facebook in California per ospitare il primo ministro indiano Narendra Modi. In passato, le aziende tecnologiche potrebbero aver invocato i diplomatici di Washington per trasmettere le loro preferenze di politica estera. Oggi, le dimensioni e il volume d’affari dei giganti della tecnologia degli Stati Uniti consentono insomma ai loro amministratori delegati di bypassare Washington e comunicare direttamente con i leader mondiali.
L’espansione dei giganti della tecnologia potrebbe avere profonde implicazioni per la geopolitica. Ora che queste aziende detengono un valore pari al prodotto interno lordo di paesi piccoli e hanno un numero di utenti attivi che rivaleggiano con le popolazioni dei grandi paesi, non è sorprendente che stiano giocando un ruolo maggiore sulla scena mondiale, sedendo ormai agli stessi tavoli dei capi più o meno democraticamente eletti ed influendo sulle sorti del pianeta più di un presidente o capo di governo.
Tra governi e multinazionali è guerra aperta. Non è un caso che l’Unione Europea abbia chiesto alla catena Starbucks e a Fiat di restituire fino a 30 milioni di euro ciascuno in tasse, segnando un punto contro le tassazioni favorevoli per le multinazionali. “Tutte le società, grandi o piccole, multinazionali o meno che siano, devono pagare le tasse in maniera adeguata“, sono state le parole del commissario Ue per la competizione Margrethe Vestager, mentre annunciava che il governo olandese deve recuperare i soldi dalla catena Usa del caffè, mentre al Lussemburgo spetta richiederli alla società automobilistica.
E ci sono governi che ancora danno filo da torcere alle multinazionali con numeri impressionanti. Pensiamo a Pechino. Jim Edwards, su informationclearinghouse.info, racconta che in questi giorni il 18° Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese vedrà riunirsi la sua quinta assemblea plenaria e annuncerà il 13° piano quinquennale per la nazione decidendo il tasso di crescita del suo Pil per i prossimi 5 anni: ”Potrebbe sembrare una supercazzola di un pugno di maoisti ai nostri occhi occidentali, ma se si è interessati a dove sta andando l’economia mondiale, questa è roba che scotta. Potreste pensare che la cosa non vi riguardi perché non siete cinesi. Sbagliato! La Cina rappresenta il 32% della crescita del Pil mondiale e circa il 30% della spesa mondiale, secondo Credit Suisse. In altre parole, se la Cina starnutisce, il resto del mondo prende una polmonite”. La gente è abituata all’idea che la Cina non dica la verità rispetto alla sua crescita reale. Per cui i numeri vengono tenuti al ribasso. Ma resta il fatto che l’economia cinese sta rallentando; la richiesta di beni come ad esempio il rame della Glencore è crollata negli ultimi 5 anni; tutti temono le banche che hanno concesso troppi prestiti o in possesso di credit default swaps, in cui il valore di quelle scommesse dipende da beni come il rame; se tutto va male, potrebbe scatenarsi una recessione globale.
Di recente Obama sta stuzzicando anche la Cina. Nell’ultimo paio di anni le relazioni tra Usa e Cina sono crollate molto rapidamente e se saltano le relazioni commerciali tra le due più grandi economie del mondo, ci possono essere pesanti ripercussioni per l’economia mondiale. La Cnn ha mostrato che navi da guerra statunitensi potrebbero presto navigare entro le acque territoriali attorno alle Isole Spratly. Queste isole sono rivendicate dal governo cinese, ma il governo Usa non è d’accordo e Obama sembra intenzionato a mostrare i muscoli in quell’area, dispiegando navi da guerra vicino alle isole artificiali cinesi nel Mar Cinese del Sud. Se Obama manderà le sue navi da guerra in quell’area, ci sono grandi possibilità che vengano attaccate. Questi scambi sembrano portare Usa e Cina verso un temuto, ma previsto, confronto militare. Tutte e due le parti sembrano essere convinte di poter prevalere, questo è il lato più preoccupante.
Un quadro poco rassicurante, in cui l’Europa resta il vaso di coccio.

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