L'Italia, stretta tra dighe e sabbie mobili

di Raffaella Vitulano

Disorientata, lacerata. Eppure la Disunione europea resta fondamentale nella scacchiera mondiale. L'Italia, nello specifico, rischia poi di assurgere a fulcro della contesa tra blocchi geopolitici nonché della tenuta dell'unione monetaria. Il caotico contesto alimenta il multipolarismo che si articola su veri e propri fronti di guerra, alleanze ed accordi commerciali. Filo conduttore poco dichiarato, che sembra riportare il tutto a un certo quadro di coerenza, la strategia americana di contrasto alla formazione di un asse eurasiatico. Di smentita in smentita è ormai noto che sul territorio libico sono presenti unità d'élite di Francia, Inghilterra, Stati Uniti. Adesso anche quelle italiane. Di fatto una guerra per procura, alimentata dal disimpegno militare americano nel Nord Africa al fine di evitare nuovi impantanamenti nelle sabbie (mobili) libiche dopo quelle dell’Iraq e dell’Afghanistan. Un centro studi vicino al ministero della difesa spiega che al contingente italiano toccherebbe proteggere infrastrutture strategiche tra cui l’impianto di gas di Mellitah, a 100 chilometri a Ovest della capitale e gli italiani potrebbero essere obiettivi di ”cecchini, autobombe, attentatori suicidi, Ied (ordigni esplosivi improvvisati) e sommosse popolari". La morte di due tecnici italiani - sequestrati lo scorso luglio - durante un raid delle milizie armate libiche a Sabratha la dice lunga sul clima di questi giorni. E non rende più sereni sapere che Washington ha inviato oltre 5.000 tonnellate di munizioni in Germania, la più grande quantità in 10 anni per ”consentire alla Nato di difendere i suoi alleati”. Il Mediterraneo si fa incandescente. Anche l’Iraq, dove Trevi, specializzata in fondazioni speciali e consolidamento dei terreni, ha firmato - aggiudicandosi la commessa come unico concorrente - il contratto per la manutenzione e messa in sicurezza della Diga di Mosul per un valore complessivo di 273 milioni di Euro. I piani per schierare truppe italiane presso la Diga di Mosul erano da tempo stati annunciati da Obama che già nel dicembre scorso aveva così “forzato” Renzi a rendere noti i preparativi dell’operazione che vedrà circa 500 militari italiani proteggere i cantieri dell’azienda romagnola. Per superare i dubbi del premier, l’ambasciata americana in una nota pubblicata sul suo sito valutava come in caso di rottura il numero di vittime stimato sarebbe tra 500 mila e 1,5 milioni di iracheni che vivono lungo il fiume Tigri. Allarmismi smentiti dal governo iracheno e dallo stesso direttore della diga, ma che hanno avuto l’effetto desiderato di una sferzata.
Che l’Italia laggiù non si limiterà a fare la guardia ad una diga lo spiega l’invio degli elicotteri da attacco Mangusta, che l’Esercito continua a definire da “esplorazione e scorta” in ossequio alla terminologia politicamente corretta imposta dalle “missioni di pace”(in prima linea), ma che in realtà serviranno a garantire un appoggio ai bersaglieri che verranno dislocati ad una decina di chilometri dal fronte che contrappone le truppe curde e le milizie dello Stato Islamico dell’Isis. La commessa è impegnativa, ma Analisi Difesa si chiede senza giri di parole ”perché a proteggere un cantiere che ospiterà 450 tecnici e maestranze debba venire schierato un battaglione di fanteria invece di contractors e guardie locali”. La risposta, il direttore Gianandrea Gaiani già la sa: ”L’arrivo di forze italiane da combattimento sembra rispondere alle reiterate pressioni di Washington che vorrebbe vedere Roma e gli altri alleati europei maggiormente coinvolti, anche ’boots on the ground’, nelle operazioni contro l’Isis, in Iraq come in Siria e i Libia”.
Facciamocene una ragione. E’ guerra. E business is business, e chi se ne importa delle infiltrazioni economiche e finanziarie del terrorismo che denunciava due giorni fa lo stesso ministro dell’Economia, Padoan. L’area di crisi disegnata con accuratezza oltre venti anni fa da Zbigniew Brezinski nel suo saggio “La grande scacchiera” ricorda sempre più sul territorio la faglia di guerra della seconda guerra mondiale, dal Mar Nero al mar Egeo, dai confini balcanici ai deserti. La differenza in questi anni la fa la tecnologia. Nella guerra sul campo, certo, ma anche in quella dei media. L’attuale distorsione informativa non riesce a far riconoscere alle opinioni pubbliche europee le parti in causa dello scontro. In pratica, siamo passati dalla terza guerra mondiale a pezzi ad una vera e propria terza guerra mondiale. Ma noi continuiamo a percepirne ancora parzialmente, purtroppo, la valenza, grazie agli strumenti disinformativi. E in Italia continuiamo a circoscriverne gli effetti.

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