16 anni di euro. E un futuro nebuloso

di Raffaella Vitulano

Un nuovo anno, con uno sguardo all’Europa, sempre più divisa all’interno e sempre più sgretolata nei divari tra le economie. Sembra essersene accorta la Bce, che in una recente ricerca ripresa dal quotidiano tedesco Die Welt, apre un’osservazione a lungo termine sulla “convergenza reale nella zona euro”,  una delle questioni più delicate dell’unione monetaria. Nello specifico della ricerca si tratta di comprendere se l’euro, sin dalla sua introduzione nel 1999, abbia effettivamente soddisfatto l’obiettivo che si era posto, ovvero quello di diventare il motore dell’integrazione economica dell’Europa, o se, al contrario, abbia ampliato il divario tra le economie degli Stati membri. E gli economisti della Bce giungono a conclusioni poco lusinghiere, sostenendo che, a 18 anni dall’introduzione della moneta unica, persiste nell’area valutaria un forte divario nord-sud. Il quotidiano tedesco Die Welt, vicino alle posizioni di Angela Merkel, spiega come anziché convergere le economie dei Paesi membri abbiano aumentato la distanza.
Prima dell’avvio dell’euro il reddito pro capite italiano era il 122% della media europea. Diciotto anni dopo la ricchezza è solo al 96%. Al contrario, la Spagna è migliorata di dieci punti, dal 93% al 103%, tuttavia, questo aumento è dovuto principalmente a un boom immobiliare che non ha avuto vita lunga. Ma se Roma piange, neppure Berlino non dovrebbe ridere troppo: la Germania, infatti, non sarebbe comunque il grande vincitore dell’euro, come si sente ripetutamente affermare. Soprattutto nei primi anni dell’Unione monetaria, la ricchezza tedesca era in calo rispetto all’intera Ue. Nel 1998, il Pil pro capite era pari al 125% della media e alla fine del 2016 solo il 123%. E questo spiegherebbe il nervosismo degli ultimi mesi che serpeggia tra chi si sentiva al riparo dalle tempeste che stanno annegando l’Europa. L’ipotetico sviluppo della prosperità nell’area dell’euro con quello reale vede alla fine tra i grandi vincitori l’Irlanda e gli Stati baltici. E’ la prima volta che economisti di un’istituzione come la Bce ammettono ufficialmente le asimmetrie provocate dall’Unione monetaria. Ma questo basterà, nel 2018, a correggerne le storture? Senza intervenire sulla distorsione del mercato dei capitali, quella del mercato del lavoro e quella del mercato dei cambi, sarà difficile che si riesca a frenare l’implosione dell’Eurozona. L’alternativa - e qui arriva il monito di Washington - è che davvero alla lunga la Germania possa dominare il Vecchio Continente. E dunque qualcosa si dovrà pur fare in termini di misure espansive. L’asse della Germania con la Francia scricchiola ma i partiti progressisti, che pure potrebbero frenare l’implosione ponendo una diga all’austerità e sostenendo un pensiero che realizzi in concreto maggiore eguaglianza sociale e stabilità, stanno collassando ovunque. Dal 2008 l’austerità è funzionale soprattutto alla colossale alterazione della redistribuzione del reddito in certi paesi e in certe classi sociali. Un dato confermato dallo stesso studio Bce. E tuttavia, che solo i tassi bassi avrebbero salvato le economie è frutto di una visione basata solo sul debito pubblico ma che non tiene conto anche dell’indebitamento privato. Per non parlare del fatto che l’immensa facilitazione di accesso al credito ha snaturato in alcune aree la produttività, favorendo la concorrenza al ribasso e la minor qualità. Ogni strumento di potenziale sviluppo va dunque monitorato nella sua applicazione, con rigore.
E a proposito di rigore, molti di coloro che oggi demonizzano il fiscal compact (ma a maggiore ragione dovrebbero prendersela con la direttiva Juncker) non sono estranei alla sua approvazione, avvenuta nel consenso pressoché generale. La direttiva Juncker in arrivo (che riguarda la trasformazione dell’Esm, il Fondo di stabilità permanente, in una sorta di Fondo Monetario Europeo) rischia di essere più severa del fiscal compact che dovrebbe recepire, dato che limita le deroghe alle circostanze eccezionali e alle sole riforme con un impatto positivo e diretto sui conti pubblici. Nel Consiglio del 14-15 dicembre scorso non è stata fatta alcuna valutazione approfondita dei cinque anni di sperimentazione e, quindi, si deve intendere che la questione non è comunque risolta ma rinviata a tempo indeterminato. La Commissione ha presentato una proposta secondo cui le residue e secondarie norme del Fiscal Compact non vengano immesse direttamente nel corpo del Trattato sul funzionamento dell’Unione ma nel diritto comunitario (derivato dai Trattati). Ma la Germania è divisa e in preda alla peggiore crisi politica da 70 anni. Il 2018 sembra così alquanto nebuloso e la crisi dell’euro non troverà risposte immediate.

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