Rinascita

di Raffaella Vitulano
Rientrava dai viaggi di lavoro con una valigia marrone, sintetica, e una ventiquattr’ore di pelle cognac che nascondeva sempre qualche regalo per lei. La bambina lo guardava, rannicchiata nel corridoio umido dalle pareti rosse di un bilocale di periferia. Pensili di fortuna in cucina, a volte scarafaggi nel ripostiglio delle scarpe. I muri erano le tele preferite della bambina, colori messi a caso, con silenzio ed intuizione. Lui la lasciava fare, e pazientemente - di quando in quando - pitturava di bianco quelle pareti imbrattate. Le lasciava dar vita, con innesti cromatici volenterosi, alla calce grigia del bilocale al sesto piano. Le lasciava srotolare carta igienica, perché potesse crearne forme inedite. Colori vivaci, come quelli della tempera pastosa che lei usava sui chicchi di riso nei suoi mosaici infantili. Setosi come la velina da origami utilizzata anni prima da una bambina giapponese per realizzare gru. Tante gru. Che però non erano bastate a salvare la vita di Sadako in un ospedale di Hiroshima. La bambina di Milano piangeva ogni volta, rileggendo quella storia nel volume dalla copertina laccata. Singhiozzava, ma le lacrime sparivano quando il padre, ferroviere vagabondo, tornava. Le mani forti, la voce autorevole e rassicurante.
L’asilo, le focacce, gli angeli di carta rosa, la cioccolata, il proiettore con le diapositive a fumetti. Intorno alla bambina, le manifestazioni dei lavoratori della Pirelli, l’acciaio rapace dei pali della luce nella nebbia, i cavi dei tram, le rotaie arrugginite, l’odore cupo e metallico dei tubi di scappamento delle auto su viale Fulvio Testi, le esalazioni della manifattura tabacchi, il sapore fangoso e di uova marce delle nebulizzazioni respiratorie, gli antibiotici.
Qualche anno dopo, l’omicidio Moro. Lei era cresciuta, suo padre stava invecchiando. Ma lui scriveva ancora coraggiosi editoriali, trattava coi padroni e difendeva i lavoratori con la stessa passione di quando, studente d’ingegneria, teneva comizi nella piazza di Boscotrecase. La malattia lo colse la prima volta a cinquant’anni, era a capo del sindacato di categoria. Non si fermò. L’impegno e il lavoro, nel tempo, avrebbero fatto della bambina una ragazza a lui grata. Avrebbero creato la donna quando lui, palpebre serrate, se ne sarebbe andato. Oltre.
Stigma di dolore. Lento e profondo, come un movimento orientale.
Len-tis-si-mo.
Accadde in quel momento esatto. Uno strappo, sussulto malinconico.
Poi, la rinascita.


(il racconto fa parte della collana "Un Concerto di scrittori", realizzata dall'associazione umanitaria "Tuttiartisti", fondata e presieduta da Osvaldo Moi, sottufficiale e pilota di elicotteri dell'esercito italiano dal 1980 )

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