Giornalisti come piloti di caccia


Come i piloti di caccia, “i giornalisti devono essere ben addestrati e sicuri di sé, ma senza essere cowboy. La mitezza produce un giornalismo grigio come l’acqua dei piatti e non più saporito. Se mai il giornalismo volesse riconquistare il suo status precedente - e legittimo - deve prima riconquistare la sua spavalderia”. La questione mdiatica trattata su Polìtico da Jack Shafer merita grande attenzione. Se non altro perché la nostra epoca è piena di incognite, incongruenze e incoerenze che il giornalismo sano potrebbe aiutare a rilevare e a dissipare. Il collasso dell’in dustria dell’informazione sta portando via con sé la sua anima e il declino dei media sta privando il giornalismo di uno strumento cruciale. L’atten zione di Shafer è rivolta verso il giornalismo americano “feri to e zoppicante”, ormai privo di “spavalderia”. Ma leggendo l’articolo le parole si addicono ad una situazione globale, distorta nei racconti coi pretesti della disinformazione, che occulta verità inconfessabili. “La spavalderia è la pratica giornalistica che uccide il conformismo, spesso condotta a dispetto dell’autorità e delle consuetudini, per raccontare una storia vera nella sua completezza, indipendentemente da chi potrebbe offendere. Fa sì che alcune persone si abbonino e altre annullino il proprio abbonamento, e dà ai giornalisti il coraggio e la direzione necessari per svolgere al meglio il loro lavoro. La spavalderia un tempo era il biglietto da visita del giornalismo, ma negli ultimi decenni è stata messa da parte. In alcune sedi, i giornalisti ora svolgono il loro lavoro con tutta la passione di un contabile, e lo si vede nella loro copia cauta, formulata ed equivoca. Invece di godersi le polemiche, le redazioni di oggi evitano di pubblicare storie vere che qualcuno potrebbe sostenere che causano “dan no” - quel termine moderno che copre ogni disagio emotivo – o, peggio ancora, che potrebbero offendere interessi potenti”. La perdita di spavalderia giornalistica può essere misurata in parte in numeri. Una generazione fa, la professione traeva potere culturale dall’impiego di quasi mezzo milione di persone solo nel settore dei giornali. Ora, più di due terzi dei posti di lavoro dei giornalisti dei giornali sono scomparsi dal 2005, ed è ampiamente accettato che la tendenza continuerà nei prossimi decenni mentre altri giornali e riviste vacillano e scivolano nel cimitero delle pubblicazioni. L’autore evidenzia poi il cambiamento nell’approccio psicologico: “Un tempo, i direttori dei giornali delle grandi città, rappresentati da Ben Bradlee del Washington Post, camminavano a grandi passi nelle loro proprietà come colossi, abbaiando ordini e conquistando deferenza da ogni angolo. Il direttore dei giornali di oggi si presenta rivestito dell’aura grigia e accomodante di un burocrate, spesso indistinguibile dagli editori per i quali lavora”. “Procedendo con discrezione per non irritare nessuno, questi direttori impongono quello stile ai loro giornalisti, molti dei quali svolgono il loro lavoro in una posizione accovacciata sulla difensiva invece che nella tradizionale posizione offensiva. Spesso soffocati dai loro migliori redattori, i giornalisti di oggi si ritrovano anche a combattere un secondo fronte contro i politici che ora dirigono le loro campagne contro i giornalisti tanto quantofanno contro i loro avversari. Anche il pubblico sembra odiarli, secondo i sondaggi che affermano che non sono affidabili”. La perdita di spavalderiaha lasciato i lettori in difficoltà nel decifrare pezzi che sembrano essere stati riportati attraverso un velo o, peggio ancora, sembrano prodotti daldipartimento delle relazioni pubbliche di un’agenzia a livello di gabinetto.“Invece di editori e giornalisti che risolvono le loro divergenze in battagliecampali, i giornalisti di oggi si siedono per educate sessioni Zoom”: Steve Chapman, che ha lavorato come editorialista e editorialista del ChicagoTribune per quattro decenni, attribuisce il declino della spavalderia, in parte, alla liquidazione generale del business. Se i lettori distolgono lo sguardo, si arriva alla causa principale del declino del giornalismo: la mancanza di pubblicità. È un errore parlare di “business del giornalismo” quando la funzione primaria di giornali e riviste è stata, per così tanto tempo, quella di trasmettere il messaggio della pubblicità di massa. Quandogli inserzionisti hanno appreso che la pubblicità su Internet era molto più efficace e spesso più economica della carta stampata, hanno disertato verso luoghi come Google e Facebook che non avevano bisogno di notizie per attirare quegli occhi. Laddove una volta la pubblicità rappresentava l’80% delle entrate della maggior parte dei giornali nel loro periodo di massimo splendore, le entrate derivanti dalla diffusione e le entrate pubblicitarie sono uguali in tutto il settore. “La base economica in pericolo del giornalismo riduce il numero totale di posti di lavoro disponibili e crea condizioni di lavoro tutt’altro che ideali”, scrivono Powers e Vera- Zambrano. Non è raro che una raffica di licenziamenti sia seguita da richieste da parte dei capi che giornalisti ed editori facciano di più con meno. Ironicamente, “nessuno è mai diventato giornalista per diventare popolare. Le rappresentazioni a grandi linee nei film e nei romanzi ci hanno insegnato, in modo abbastanza accurato, che i giornalisti tendono al rozzo, al volgare, allo sfacciato e al ficcanaso. Per molti anni i giornalisti sono stati generalmente ammirati per questi attributi nello stesso modo in cui il macellaio di manzo è ammirato per le cicatrici sulle sue mani”. Nick Gillespie della rivista Reason attribuisce il declino della spavalderia, in parte, alle forze generazionali: “I Millennial e la Gen Z sono stati allevati come vitelli umani dai loro genitori Boomer e Gen X, che si sono assicurati che i loro figli fossero costantemente sorvegliati e ottimizzati per il successo nello sport e per l’ingresso nella pipeline dell’establishment”, afferma. “Possiamo sorprenderci che un tale sistema abbia prodotto generazioni di giornalisti che descrivono all’infi nito tutto ciò su cui non sono d’accordo come disinformazione e vogliono controllare e regolare tutto come la temperatura della stanza in un programma di arricchimento doposcuola?”. E questo è un punto cruciale: chi non si allinea alla vulgata mainstream viene considerato complottista. E il suo, piuttosto che giornalismo investigativo, viene bollato come disinformazione. “Questo atteggiamento ha permeato la stampa, poiché gli editori si rifuggono dal pubblicare qualsiasi cosa che possa offendere qualcuno” prosegue Shafer. Cosa dovremmo fare allora? Matt Labash, che si è guadagnato il nome di spadaccino al Weekly Standard e ora fa affari con la newsletter Substack “Slack Tide”, è uno dei tanti che citano il boom delle newsletter come una soluzione temporanea, se non una soluzione. Personalmente seguo Seymour Hersch (oggi in pensione) ed altri sulla piattaforma Substack, ma i principali Substacker Matt Taibbi, Bari Weiss e Nellie Bowles e Matt Yglesias hanno saltato il fosso e lasciato con profitto i loro lavori tradizionali presso Rolling Stone, New York Times e Vox per Substack, liberandosi “dal pensiero di gruppo cecchino prevalente in così tante redazioni che identifica la spavalderia come un crimine di espressione e cerca di estinguerlo”. Pur non essendo il rimedio immediato al declino della spavalderia, Substacks punta a un futuro imprenditoriale in cui i lettori rispondono direttamente a giornalisti vivaci che li sfidano invece di coccolarli.


Raffaella Vitulano


Commenti

Post più popolari