Euroligarchie, sfida cinica alla democrazia

 di Raffaella Vitulano


Abiti su misura. Di fogge diverse e accessoriati come ognuno vuole o può. Sì, di quelli che ognuno si cuce un po’ come gli pare, e vada a ramengo lo stile. E che, tradotti nel linguaggio burocratico della finanza mondiale - perchè sempre lì si va a parare - sono simbolici di quel mondo à la carte in cui ognuno arraffa quel che può ai danni degli altri. Inutile girarci attorno e gridare al complottismo: sta accadendo tutto alla luce del sole, si chiama terza guerra mondiale. Quella economica, certo. La guerra del capitale contro il lavoro. E poi c’è l’altra, quella degli eserciti. Perchè di una non si può parlare senza l’altra per quanto sono interconnesse. Oggi come allora. Perchè le oligarchie sono sempre esistite e in ogni epoca storica hanno tessuto trame e orditi di giacche reazionarie o rivoluzionarie (che in alcuni casi coincidono nel mandante).
Prendiamo le oligarchie europee, legate a doppio filo con quelle oltreoceano. Negli ultimi tempi, il Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) ha acquisito un nuovo simbolo, il glaciale volto di Cecilia Malmström. Donna spigolosa nei lineamenti e spesso di rosso vestita, con giacche e accessori di fuoco che la dicono lunga sulla sua passione per gli scambi commerciali. La commissaria europea risponde alla polemica nata in seguito alla pubblicazione di un blog di John Hilary, direttore della Ong “War on want”, in cui Hilary scriveva che la commissaria gli aveva detto “il mio mandato non mi arriva da popolo europeo”. “Si tratta solo di un fraintendimento”, ha spiegato Malmström in risposta alla domanda di una giornalista durante la presentazione della strategia della Commissione sul commercio. Quella che intendeva dire è che il suo mandato - come commissaria - non le è stato dato dal popolo, ma ”dal Parlamento, dove siedono i rappresentanti diretti del popolo” dei Paesi membri per negoziare il Ttip. Un giro di parole con unghie che stridono scivolando sulle pareti gialle e azzurre di Bruxelles.
Diciamolo, ormai viviamo in un’epoca da “Corporate democracy” che qualcuno azzarda a definire ”il sequestro delle Nazioni”. In fondo lo conferma con nonchalance anche Juncker, attuale presidente della commissione Ue: “Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere che cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno”. E c’è chi dal nord Europa ci va giù ancora più duro. ”La crisi dell’area euro mostra come il modello sociale europeo è morto”, spiega candidamente il presidente della Banca Centrale Europea (Bce), Mario Draghi, in un’intervista al Wall Street Journal, sollecitando le liberalizzazioni dei prodotti e servizi. Vederlo scritto così, nero su bianco, senza esitazione alcuna, fa rabbrividire pensando a quel modello sociale che tanto era il nostro vanto comunitario. E a proposito di Mario Draghi, doveva testimoniare nel corso delle udienze al processo di Trani contro “Standard & Poor’s“. Era stato citato dal Pm Michele Ruggiero, ma non verrà, dato che “è un momento delicato per l’economia mondiale” e “teme clamori mediatici“. Sul banco degli imputati c’è l’agenzia di rating che il 21 maggio 2011 preannunciava in un report l’instabilità dell’Italia e che nel gennaio 2012 la declassava da A a BBB+. Una brutta storia, di cui poco si scrive. Lo scorso 24 settembre i giudici hanno ascoltato Giulio Tremonti, che all’epoca dei fatti era il Ministro dell’Economia, che ha dichiarato come ”Il quadro economico finanziario dell’Italia era solido; l’economia del Paese correva più di Francia e Germania, esposte molto più per i prestiti alla Grecia; e non c’era rischio di una paralisi politica”. Tenta di fare maggiore chiarezza il colonnello della Guardia di Finanza Adriano D’Elia, classe 1967, comandante del Nucleo di Polizia Tributaria di Firenza, quando azzarda che ”Standard & Poor’s non ha personale adeguato a svolgere valutazioni sul debito sovrano”. Tuttavia, scorrendo gli storici si scopre che aveva in compenso azionisti preparatissimi, visto che Morgan Stanley controllava Mc Graw Hill, con sede nel Rockefeller Center a New York, a sua volta azionista proprio di Standard & Poor’s. E cosa succede subito dopo che S&P declassò l’Italia? Mario Monti avrebbe trasferito immediatamente un assegno da 2 miliardi e mezzo a Morgan Stanley, che aveva un bel contrattino di finanziamento con una clausola per la quale in caso di downgrade sarebbe passata all’incasso. Il meccanismo ce lo ha spiegato bene ByoBlu: Morgan Stanley possiede Standard & Poor’s che declassa l’Italia che quindi deve pagare 2 milardi e mezzo a Morgan Stanley. Le banche d’affari si pagano subito, che se no ci ricaricano gli interessi. I piccoli imprenditori e i lavoratori italiani possono aspettare. Il 19 novembre e il 10 dicembre saranno chiamati a testimoniare, tra gli altri, Romano Prodi, Mario Monti, il ministro Pier Carlo Padoan e la dottoressa Maria Cannata, direttore del dipartimento debito pubblico del Ministero del Tesoro.
Soldi, soldi, soldi. Tanti soldi. Un bel giro di soldi che le oligarchie muovono e spostano a piacimento. Jeff Nielson ha reso eloquente il meccanismo in un pezzo che ha recentemente pubblicato: ”Nessuno capisce i derivati. Quante volte i lettori hanno sentito quest’espressione? Perché nessuno capisce i derivati? Per molti la risposta a questa domanda sarebbe troppo difficile. Per gli altri, la miglior risposta è non rispondere affatto. I derivati sono scommesse. Questa non è una metafora, o analogia, o generalizzazione. I derivati sono scommesse. Stop. Questo è tutto ciò che vediamo nel passato. Questo è tutto quello che vedremo nel futuro”. Warren Buffett ha dal canto suo una volta denominato gli strumenti derivati ”armi finanziarie di distruzione di massa“, e mai definizione fu più azzeccata. Oggi, nonostante la calma apparente di Wall Street, una grande quantità di problemi sta bollendo appena sotto la superficie. Scommesse, ok? Sembra che alcune istituzioni finanziarie abbiano cominciato a entrare in una quantità significativa di difficoltà a causa di tutte le scommesse temerarie che stanno facendo. Ed è questo che sta per provocare il crollo del nostro sistema finanziario.

Ciononostante, le euroligarchie premono. Di fronte ai gravi problemi economici e sociali che attanagliano l'Europa, la Commissione europea non ha altro da proporre che un incremento delle attività finanziarie, di nuovo un affidamento alle magnifiche sorti e progressive dell'economia virtuale. Non hanno dubbi, le élites: ”Se le cartolarizzazioni nell'Ue tornassero ai livelli di emissione medi pre-crisi, sarebbe possibile generare tra i 100 e i 150 miliardi di euro di finanziamenti supplementari per l'economia”. Come se alla base della Grande recessione, nella quale per certi versi ancora siamo immersi, non ci fosse stata proprio la crescita ipertrofica della finanza speculativa ed il sistema bancario ombra (Shadow banking system), tra le cui attività le cartolarizzazioni hanno sempre avuto un peso più che rilevante.
Ma se questo è reso possibile a Bruxelles, è perchè lo squilibrio dei poteri nella capitale d’Europa è lampante: il parlamento è riuscito a guadagnare soltanto un ruolo di codecisione nel processo legislativo. Ancor più lampante è il deficit di legittimità: il motore legislativo dell’Unione, la Commissione, non è elettiva. La Bce ha il monopolio dell’offerta di moneta. Ma andiamo avanti sulla questione della legittimità democratica e delle euroligarchie. Analizziamo un organo che ha assunto un ruolo di massima rilevanza fungendo da principale forum di negoziazione: l’Eurogruppo. E’ al suo interno che si svolgono le più intense attività di lobbying nei confronti delle politiche economiche degli Stati. L’Eurogruppo non ha alcuna natura di organo ufficiale, trattandosi di un organo meramente “consultivo” ed “informale”. Le decisioni prese in seno all’Eurogruppo sono prive di carattere vincolante, essendo nato come organo di raccordo fra gli Stati che adottano la moneta unica e non come organo deliberativo come il Consiglio (che è annoverato fra gli organi ufficiali). Eppure, di fatto è al suo interno che spesso vengono assunte decisioni di rilievo.
Va così. L’Europa è ormai da tempo in preda ad una scossa tellurica. Istituzioni e politiche vengono da anni frullate come in uno shaker. In un articolo per Project Syndicate, Daniel Gros, Direttore del Center for European Policy Studies di Bruxelles, sostiene che l’asse del potere interno dell’Europa si sta spostando. La posizione dominante della Germania, che è parsa assoluta a partire dalla crisi finanziaria del 2008, si sta gradualmente indebolendo - con conseguenze di vasta portata per l’Unione Europea.
La possibile mega class action è però soltanto uno dei problemi tedeschi del gruppo Volkswagen. L’altro è la più che probabile battaglia - per ora solo minacciata - che potrebbe essere avviata dal potente sindacato tedesco dei metalmeccanici, Ig Metall, qualora i vertici della casa di Wolfsburg cercassero di far pagare ai lavoratori gli errori del management. La stampa tedesca, seppure per ora soltanto a livello di indiscrezioni, ha già messo nero su bianco lo scenario di 6 mila esuberi. Per il sindacalista Joerg Hofmann ”i lavoratori non hanno alcuna responsabilità nello scandalo e il sindacato farà tutto il possibile per garantire che gli impiegati non debbano pagare per i danni provocati dai manager”. L’eventuale piano di tagli metterebbe in grande imbarazzo anche la cancelliera Angela Merkel che per garantire sostegno ai lavoratori si troverebbe costretta a varare una misura ad hoc che consenta il ricorso agli ammortizzatori sociali. Il caso VW sembra indebolire la posizione di forza della Germania in Europa: questa inchiesta potrebbe rappresentare il tentativo di contenimento da parte degli Usa della politica commerciale tedesca “aggressiva” basata su persistenti avanzi della bilancia commerciale. Ma soprattutto questa inchiesta sulle emissioni dei motori VW è coincisa apparentemente con una politica estera tedesca divergente dagli interessi di Washington in Siria. Un’azione durissima, al punto tale che oggi qualcuno - pensando anche alle scelte del nostro Paese - si chiede se non fosse stato il caso, in altri tempi, di riflettere su “una Sigonella dell’economia”.
Sul piano più geopolitico, inoltre, mentre la Germania, a causa del suo pieno coinvolgimento nelle economie dell’Europa centrale e dell’est, è stata determinante negli accordi di Minsk che dovevano porre fine al conflitto in Ucraina, oggi ha poca influenza tra i paesi del Medio oriente che stanno attirando l’attenzione del mondo. Del resto, chi la fa, l’aspetti. La deindustrializzazione italiana realizzata nel 1992, fu quasi sicuramente voluta da Francia e Germania per indebolire la posizione dell’Italia, divenuta un concorrente troppo forte. Forse lo spostamento del baricentro è stato volutamente accelerato per le troppe resistenze teutoniche ad una integrazione chiesta a voce grossa dalle euroligarchie. Fatto sta che qualcosa si sta muovendo. E la Germania viene bypassata anche sul fronte dei rapporti con la Russia.
Migliorare i rapporti con Mosca “non è molto attraente, ma è indispensabile”, tuttavia anche la Russia deve cambiare. Così si è espresso il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, secondo il quale la Casa Bianca non può dettare all’Europa come deve trattare la Russia. Gioco delle parti? Potrebbe essere.
Di euroligarchie è ben consapevole l’economista ed ex ministro Nino Galloni, che dopo l’attività politica ha insegnato all’Università Cattolica di Milano, all’Università di Modena ed alla Luiss. La nascita degli Stati Uniti d’Europa (Use) rappresentano il passaggio successivo della crisi dell’eurozona?
”Questa soluzione mi sembra poco probabile dal momento che la realtà dei nazionalismi la allontana ulteriormente. Personalmente ritengo che qualora andassimo incontro a un’ulteriore cessione di sovranità da parte degli stati nazionali, non sarebbe altro che l’affermazione ultima dell’onnipotenza del mercato e di rottura del patto di solidarietà tra i popoli europei, già messo duramente alla prova dalla struttura dei trattati europei”. Dello stesso avviso l’ex capo economista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, per il quale l’euro sarà condannato ad uno stato di crisi permanente, poiché una più profonda integrazione non porterà nessuna prosperità all’unione in crisi.

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