“La fine della pandemia non sarà trasmessa in televisione”

 di Raffaella Vitulano



La fine della pandemia non sarà trasmessa in televisione. I dashboard delle statistiche sulla pandemia hanno dominato gli schermi e hanno aiutato a tracciare il covid-19, ma il redattore senior David Robertson e Peter Doshi, professore associato della Princeton University, spiegano dalle colonne del British Medical Journey (Bmj) perché potrebbero non essere sufficienti per definirne la fine. Basta allarmismi dei media e dei governi, insomma. Viviamo e lavoriamo in sicurezza con buonsenso e nel rispetto delle persone: la pandemia finirà quando la società deciderà di riprendere la vita normale piuttosto che aspettare che le statistiche Covid registrino zero casi.

“Le statistiche forniscono carburante infinito per la copertura delle notizie, garantendo la costante notiziabilità della pandemia di Covid-19, anche quando la minaccia è bassa”, scrivono gli autori. All’inizio dell’anno 2021, la pandemia di covid-19 sembrava regredire. Discussioni e previsioni sulle riaperture, sul ritorno alla normalità e sul raggiungimento dell’immuni tà di gregge erano ovunque. Ma per molti, l’ottimismo è diminuito con l’arrivo delle varianti e con l’aumento dei casi e dei decessi in India, Brasile e altrove. E così la fine della pandemia, che sembrava essere all’orizzonte, è stata interrotta dal presentimento che la pandemia potesse essere molto lontana dalla fine, corroborata da misure sempre più restrittive dei governi rimbombate dai media.

A differenza di qualsiasi precedente pandemia, il covid-19 è stato monitorato da vicino attraverso statistiche e grafici che, con i loro pannelli di numeri, statistiche, curve epidemiche e mappe di calore, hanno dominato i nostri televisori, computer e smartphone. Certamente hanno aiutato le popolazioni a concettualizzare la necessità di un rapido contenimento e controllo, orientando il sentimento pubblico, alimentando la pressione per contromisure e mantenendoun’aura di emergenza. Ma tali pressioni ”possono anche generare un senso di impotenza e una catastrofe imminente quando i casi aumentano” e le curve salgono e scendono durante le stagioni. E non aiutano affatto le misure stesse di contenimento e prevenzione, vaccini compresi.

In base a quale misura, allora, sapremo che è effettivamente finita la pandemia? L’ubiquità delle statistiche in tutto il mondo ha contribuito a creare la sensazione che la pandemia finirà quando tutti gli indicatori del dashboard raggiungeranno zero (infezioni, casi, decessi) o 100 (percentuale di vaccinati). “Tuttavia, le pandemie respiratorie del secolo scorso mostrano che le conclusioni non sono mai nette e che la chiusura della pandemia è meglio intesa come avvenuta con la ripresa della vita sociale, non con il raggiungimento di specifici obiettivi epidemiologici. “Un altro modo in cui potremmo dichiarare la fine di una pandemia è - proseguono gli autori - considerare l’imposizione e la revoca di misure o restrizioni di salute pubblica. Le misure utilizzate nelle precedenti pandemie sono state più fugaci e meno invadenti di quelle utilizzate nel covid-19. Anche per la catastrofica influenza spagnola, che negli Stati Uniti ha ucciso tre volte più persone per popolazione rispetto al covid- 19, con un’età media di morte di 28 anni, le vite sono tornate alla normalità in breve tempo, forse solo perché non c’era altra scelta. In un’era prima di Internet, delle app per la consegna di cibo e delle riunioni video, il distanziamento sociale diffuso e prolungato semplicemente non era possibile”. Una situazione che rimane il caso oggi per molti lavoratori ritenuti 'essenziali'. In effetti, un breve sguardo alle pandemie passate negli Stati Uniti mostra che non esiste una relazione fissa o deterministica tra la patogenicità di un virus e l’in tensità e la longevità degli interventi di sanità pubblica. Questo è un dato molto importante e interessante per definire le strategie di azione contro una pandemia da parte di governi e istituzioni.

“Rispetto alle precedenti pandemie, la pandemia di covid- 19 ha prodotto un’interruzione senza precedenti della vita sociale. Le persone hanno vissuto a lungo la tragedia della malattia e della morte inaspettata in anni di pandemia e non pandemia, ma la pandemia di covid-19 è storicamente unica nella misura in cui l'interruzione e la ripresa della vita sociale è stata così strettamente legata alle statistiche epidemiologiche”.

Non aspettatevi, dunque, che la fine della pandemia sia annunciata in tv. Organizzate la vostra vita con buon senso. La storia suggerisce che la fine della pandemia non seguirà semplicemente il raggiungimento dell’immunità di gregge o una dichiarazione ufficiale, ma piuttosto avverrà gradualmente e in modo non uniforme man mano che le società cesseranno di essere tutte consumate dalle metriche scioccanti della pandemia. La fine della pandemia è più una questione di esperienza vissuta, e quindi è più un fenomeno sociologico che biologico. E quindi le statistiche – che purtroppo non misurano la salute mentale, l’impatto educativo e la negazione di stretti legami sociali, fondamentali per l’equilibrio e la tenuta di un paese – non sono lo strumento che ci dirà quando finirà la pandemia: ”La pandemia di covid-19 sarà finita quando spegneremo i nostri schermi e decideremo che altre questioni sono ancora una volta degne della nostra attenzione. A differenza del suo inizio, la fine della pandemia non sarà trasmessa in televisione”.

Raffaella Vitulano





Bmj: bisogna considerare l’interruzione e la ripresa della vita sociale 

La difficoltà di datare la fine di una pandemia si riflette nella letteratura storica ed epidemiologica. L’articolo pubblicato sul Bmj spiega come le pandemie respiratorie degli ultimi 130 anni siano state seguite da ondate stagionali annuali alimentate dall’endemia virale che in genere continua fino alla prossima pandemia. E’ una cosa del tutto naturale, da non considerare con panico: “L’idea, rafforzata dai dati statistici, che una pandemia finisca quando i casi o i decessi scendono a zero è in contrasto con l’evidenza storica che una sostanziale morbilità e mortalità influenzale continua a verificarsi, stagione dopo stagione, tra le pandemie”.

Le distinzioni non sono banali, poiché l'eccesso di mortalità è la classica metrica per valutare la gravità. Gli anni inter-pandemici hanno talvolta avuto un numero di morti più elevato rispetto alle stagioni pandemiche che sono seguite. Quindi, la fine di una pandemia non può essere definita dall’assenza di morti in eccesso associate al patogeno della pandemia. Piuttosto, dovremmo considerare l’interruzione e la ripresa della vita sociale.

Ra.Vi.

Approcci storici contrastanti ai virus respiratori pandemici 

Nel 1918, per la pandemia spagnola alcune città degli Stati Uniti hanno chiuso scuole e applicato restrizioni agli incontri pubblici. Ma la maggior parte delle contromisure è stata allentata entro due-otto settimane e l’interruzione della vita sociale è stata di durata relativamente breve. John Barry, storico, ha spiegato che “a differenza del covid-19 lo stress non era continuo”, osservando che molti luoghi hanno vissuto “diversi mesi di relativa normalità” tra le ondate. La pandemia di 'influenza asiatica' del 1957 ha raggiunto le coste americane verso la metà dell’anno. 80 milioni di americani  erano costretti a letto con malattie respiratorie. Eppure, anche quando è stato stimato che il 40% degli alunni in alcune scuole di New York fosse assente per l’influenza, il sovrintendente scolastico della città ha avvertito che “non c'era motivo di allarmarsi”.

Nel 1968, per l’ “Influenza di Hong Kong”, lo storico scrive che per gli Stati Uniti “l'episodio non è stato significativamente più letale di una tipica stagione influenzale negativa”. Lo storico Mark Honigsbaum sottolinea che “mentre il New YorkTimes descrisse la pandemia come una delle peggiori nella storia della nazione, ci furono poche chiusure di scuole e attività commerciali, per la maggior parte, ha continuato a funzionare normalmente”.

Ra.Vi.


Commenti

Post più popolari