Chi ha brandito il coltello contro l’Unione bancaria europea?


Crisi e fallimenti in aumento nella Ue. E la batosta finanziaria Svb non migliorerà di certo la situazione. L’Europa sembra colpita da cecità - temporanea, si spera - che le rende impossibile la lungimiranza delle proprie scelte, che spesso le si ritorcono contro. Quale paese questa volta ha brandito il coltello contro l’unione bancaria già semiformata nella Ue? Mentre il crollo dell’istituto di credito statunitense Silicon Valley Bank fa nuovamente luce sulla fragilità del sistema finanziario mondiale, all’in terno dei corridoi di potere dell’Ue cresce la speculazione su chi o cosa abbia spinto la Commissione europea - all’ultimo minuto - a ritirare una controversa parte di legislazione bancaria, la “Crisis management and deposit insurance framework”, Cmdi, che mira a evitare l’uso del denaro dei contribuenti in caso di risoluzione di una banca in dissesto, il famigerato “bailout” di cui i correntisti sentono già parlare da anni. Il piano per regole più severe sui salvataggi bancari è infatti misteriosamente scomparso dall’agenda della Commissione la scorsa settimana. Hannah Brenton su ’Polìtico’ non ha dubbi: “Non poteva esserci momento peggiore perché il piano di unione bancaria europea subisse un’altra ferita. La decisione di ritardarla è arrivata poco prima del crollo di Svb, che aveva un patrimonio di 209 miliardi di dollari e che ha richiesto un sostegno del governo degli Stati Uniti per tutti i depositanti, evidenziando tutte le lacune nel quadro per la gestione delle banche in fallimento”. Sebbene il modello di business di Svb fosse relativamente insolito e fortemente dipendente dall’industria tecnologica - dato che si occupa prevalentemente di start up - la banca era un prestatore di medie dimensioni nel più grande mercato statunitense. Come in un giallo poliziesco, la Brenton indaga. Ci sono molti paesi con un motivo per ritardare l’ultima proposta Ue che rappresenterebbe uno dei progetti distintivi per rafforzare le banche e costruire un mercato unico. “Gli assalitori hanno lavorato nell’ombra, il che a Bruxelles significa scrivere lettere con parole forti e incontrare i commissari in privato”. I siparietti lungo Rue de la Loi e la rotatoria Schuman suggeriscono cinque possibili colpevoli. Sospettato n. 1: la Germania, che ha precedenti, dato che Berlino lo scorso anno ha ucciso un sistema di assicurazione dei depositi a livello europeo a causa delle preoccupazioni per il debito congiunto (la preoccupava ovviamente anche Roma). Ma Berlino non si prende la colpa. Sospettato n. 2: la Francia. Mentre la riforma ritardata riguarderebbe i piccoli istituti di credito, la Francia non vuole che vengano imposti ulteriori costi alle sue banche più grandi. Ma ovviamente anche i francesi dicono di non essere responsabili della scomparsa di Cmdi: “Sosteniamo pienamente il principio di un’ambiziosa riforma del quadro di gestione delle crisi, ma ci rendiamo conto che si tratta di posizioni non ancora consensuali in seno al Consiglio, e senza dubbio la Commissione ha ritenuto che fosse necessario un po’ più di tempo per vedere a che livello di ambizione da includere nel progetto”, ha affermato un funzionario del ministero dell’economia francese. La Brenton suggerisce poi un terzo sospettato, un drive-by involontario: Germania e Francia hanno firmato una dichiarazione di una pagina con i Paesi Bassi e la Finlandia, inviata alla Commissione a dicembre, sollevando preoccupazioni sui rischi connessi all’espansione dell’uso dei sistemi nazionali di garanzia dei depositi. La trama si infittisce. Ma una cosa è chiara dalle indagini esperte di ’Polìtico’: la proposta è politicamente bloccata all’interno della Commissione. E dunque il quarto sospettato diventa la stessa Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che a poco più di un anno dal mandato quinquennale non vorrebbe davvero portare avanti una controversa riforma politica sui salvataggi bancari di medie dimensioni. L’opzione più plausibile, la quinta, è infine di gran lunga più noiosa: la burocrazia di Bruxelles. La Commissione sa che dovrà affrontare una dura opposizione sul contenuto, quindi il suo esercito di funzionari si sta assicurando che i suoi piani siano il più a tenuta stagna possibile e prima che le capitali dell’Ue li attacchino in pubblico. Ora, il crollo di Svb le sue potenziali implicazioni richiedono misure immediate. Se non altro perché i fallimenti di imprese stanno intanto aumentando in tutta l’Ue. Legioni di aziende europee stanno soccombendo all’ultima goccia della crisi energetica europea in gran parte autoinflitta. Nell’Ue nel suo complesso il numero di dichiarazioni di fallimento avviate da imprese è aumentato notevolmente (26,8%) su base trimestrale nel quarto trimestre del 2022, raggiungendo i livelli più alti mai registrati da quando Eurostat ha iniziato a raccogliere dati sui fallimenti a livello Ue nel 2015. Il numero di dichiarazioni di fallimento è aumentato durante tutti e quattro i trimestri del 2022. Come mostra un grafico Eurostat, con l’attuale tasso di distruzione delle imprese non passerà molto tempo prima che le imprese chiudano a un ritmo più veloce di quanto non stiano aprendo. Questa tendenza non era difficile da prevedere. Dopo essere passate da una crisi all’altra le piccole imprese europee fortemente indebitate e profondamente debilitate - la spina dorsale dell’econo mia - affrontano la minaccia estrema rappresentata dalla carenza di energia e dall’aumento dei prezzi. In tutta Europa le piccole e medie imprese hanno sopportato gran parte del peso delle ricadute economiche della pandemia. I pacchetti di stimolo - inclusi programmi di congedo, moratorie sul debito e prestiti di emergenza a basso interesse hanno in parte aiutato le imprese più colpite, ma quel sostegno è terminato. Nel frattempo, molti dei problemi economici generati dalla pandemia, compresi i colli di bottiglia della catena di approvvigionamento e la carenza di manodopera, continuano a persistere. Nel 2022, l’inflazione nell’Ue è triplicata al 9,2%, il valore più alto di sempre.

Raffaella Vitulano


L’Europa strabica che dimentica la lezione di Guido Carli 

Quando, nell’estate del 1963, l’al lora Governatore della Banca d’I talia Guido Carli, il nonno che mi ha cresciuta, avviò una decisa restrizione creditizia per frenare l’inflazione, riuscì sì nell’impresa di far tornare in equilibrio la bilancia dei pagamenti ma avvertì che la politica monetaria restrittiva e il solo obiettivo della stabilità monetaria non bastava: occorreva parimenti assicurare oltre il breve termine la stabilità e la crescita dell’economia”. Lo ricorda in un intervento Romana Liuzzo, presidente Fondazione Guido Carli, al primo appuntamento delle celebrazioni per il trentennale della scomparsa dell’economista. “Una convinzione che non lo abbandonò mai. Lo ispirò quando introdusse il primo grande modello econometrico italiano (...). La medesima convinzione lo mosse quando nel 1992, da ministro del Tesoro, appose la sua firma al Trattato di Maastricht, lottando - contro i tedeschi in primis - perché ai parametri fissi sul deficit e sul debito in rapporto al Pil fosse preferita la tendenza verso l’obiettivo soglia, riconoscendo la flessibilità necessaria in funzione della crescita economica. Per lui un imperativo etico: il benessere concreto delle comunità doveva essere la stella polare, oltre le astruserie ragionieristiche e le ricette di austerità fini a sé stesse”.

Ra.Vi.

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