I petrodollari nel mondo degli investimenti sportivi


La prudente risposta del calcio alla guerra tra Israele e Hamas rivela una relazione complessa con il conflitto e la tragedia. La migliore - e più diversificata - squadra di calcio israeliana, il Maccabi Haifa (conosciuta come i Verdi) è un mix di arabi, ebrei, cristiani e drusi che ha dominato la massima serie del paese. “Un improbabile simbolo di convivenza”, la definiva in un titolo il quotidiano Haaretz lo scorso agosto. Poi è arrivato l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la risposta di Israele. Dopo l’attacco di Hamas, le piccole sacche di convivenza tra ebrei e arabi si sono sgretolate quasi istantaneamente. Ora, anche le squadre di calcio israeliane integrate stanno mostrando segni di disgregazione. Non tutti i club avevano abbracciato l’integrazione. Il Beitar Gerusalemme, ad esempio, non ha mai ingaggiato un giocatore arabo nei suoi 87 anni di storia. Alcuni dei suoi fan più accaniti si riferiscono alla squadra come “per sempre pura”. Il Maccabi Haifa, al confronto, ha mantenuto sia una squadra che una base di tifosi diversificati, in parte a causa della posizione della squadra in una città storicamente mista. Il calcio è ora passato in secondo piano ed è stata la Federcalcio israeliana a ufficializzare la sospensione delle competizioni nazionali fino a nuovo avviso. Si prevede che la pausa sarà lunga e non esiste una data per il ritorno del calcio nel paese mediorientale. In compenso, gli arabi sembrano muovere ancora le loro pedine nello sport. “Stori camente - sintetizza un articolo sul New Indian Express che utilizza il calcio come caso di studio le squadre di calcio erano aziende private che facevano affidamento sui finanziamenti dei membri, sulla vendita dei biglietti, sui ricavi dei giorni delle partite e sulle sponsorizzazioni limitate. Con la professionalizzazione del gioco, i costi - stipendi dei giocatori, personale di supporto e infrastrutture (stadi, strutture per l’allenamento, ecc.) - sono aumentati superando le fonti di reddito. Oggi, gran parte dei finanziamenti assume la forma di investimenti da parte di individui ultra-ricchi e di fondi sovrani o statali. Inizialmente, si trattava principalmente di proprietari di franchising sportivi affermati americani (come i Glazers) e di oligarchi russi e cinesi. Si tratta sempre più spesso di petrostati del Medio Oriente, come il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e, più recentemente, l’Arabia Saudita, sia da parte delle famiglie regnanti, di entità che agiscono per loro conto o di fondi statali o sovrani. Questo farebbe parte di un ampio piano mediorientale per investire fino a 20 miliardi di dollari nello sport. Il calcio è probabilmente lo sport più popolare del pianeta. A livello globale, giocano circa 300 milioni di persone, inclusi oltre 100.000 giocatori professionisti, mentre si contano oltre 5 miliardi di fan. Pensiamo che oltre 1,5 miliardi di spettatori hanno guardato la finale della Coppa del Mondo del 2022. Il gioco evoca una grande passione, anche sui private equity e sugli hedge fund, come Clearlake Capital, Silver Lake e CVC. Le ragioni a favore degli investimenti nel calcio - prosegue il New Indian Express - sono espresse in termini di plusvalenze derivanti dall’aumento del valore delle franchigie e dalla partecipazione in un settore in rapida espansione. L’apprezza mento dei prezzi pagati per i club è legato all’aumento dei ricavi televisivi, che sono saliti alle stelle, soprattutto per competizioni popolari a livello mondiale come la Premier League inglese e la Champions League. Secondo uno studio, le entrate per i campionati di Inghilterra, Spagna, Germania, Italia e Francia sono aumentate fino alla cifra record di 17,2 miliardi di euro (18,2miliardi di dollari) nella stagione 2021-22, rispetto ai 9,3 miliardi di euro (9,9 dollari) di dieci anni prima. La TV via cavo e i servizi di streaming sono stati disposti a pagare importi sempre crescenti per i diritti esclusivi di mostrareeventi sportivi per assicurarsi abbonati. Ma negli ultimi tempi la situazione è

complicata dalla variegata struttura degli sport. Gli Stati Uniti hanno campionati chiusi e controllati centralmente in cui l’organo di governo controlla il numero di franchigie, approva gli investitori e generalmente gestisce lo sport con un occhio ai rendimenti degli investitori. Non esiste un sistema di promozione o retrocessione con gli stessi club che competono anno dopo anno. Sistemi di trasferimento e draft altamente regolamentati da leghe o college feeder vengono utilizzati per rendere ogni anno una competizione più giusta e serrata tra le squadre. Al contrario, la maggior parte dei campionati non statunitensi sono gestiti tra fazioni inconciliabili con vari gradi di professionalità e controversie. La maggior parte del calcio per club a livello globale comporta promozioni o retrocessioni basate sulle prestazioni, che hanno un effetto significativo sui ricavi e sul valore. Scarse prestazioni possono portare un club inglese a trovarsi escluso dalle lucrative competizioni europee o retrocesso in divisioni inferiori riducendo il potenziale di entrate. I risultati sul campo determinano i risultati finanziari. Sebbene sembri strano, sono pochissime le aziende calcistiche che guadagnano. I ricavi raramente coprono le spese, dominate dagli stipendi dei giocatori e dalle commissioni di trasferimento pagabili ad altri club per i talenti. Il risultato è che i costi superano i ricavi e il successo sul campo va ai club che possono contare su investitori dalle tasche profonde disposti a subire perdite spesso ingenti. Questo si chiama “effetto lassativo” o “succo di prugna”, termine coniato nel 2015 dall’ex proprietario e uomo d’affari del Tottenham Hotspur Lord Alan Sugar: i maggiori ricavi televisivi vanno semplicemente da una parte e escono dall’altra. Un’immagi ne non proprio edificante. Alcuni investitori, soprattutto gli ultra- ricchi e il private equity, hanno utilizzato quantità significative di prestiti per finanziare gli acquisti e le continue carenze di flussi di cassa. Il rischio finanziario combinato con l’elevato rischio operativo sottostante si aggiunge ai problemi. Non aiuta il fatto che uomini d’affari normalmente intelligenti e disciplinati diventino emotivi quando gestiscono attività sportive che portano a decisioni sbagliate. Interessante il passaggio in cui l’a nalista spiega come l’interesse degli oligarchi russi e cinesi potrebbe essere stato motivato dall’opportunità di trasferire fondi all’estero. Allo stesso modo, i fondi statali e sovrani potrebbero essere guidati da uno spostamento strategico dalle tradizionali attività di riserva a basso rendimento costituite da titoli di stato denominati in dollari statunitensi, yen o euro. La minaccia di de-dollarizzazione e confisca delle riserve, soprattutto dopo le azioni occidentali contro le attività russe, potrebbe essere un fattore. Ma l’investi mento diretto in una squadra sportiva statunitense, britannica o europea comporta un’e sposizione diretta al dollaro e rischia la confisca o il coinvolgimento in restrizioni commerciali. Pensiamo a quando, all’indo mani della guerra in Ucraina, il russo Roman Abramovich fu costretto a cedere i suoi interessi nella squadra di calcio del Chelsea. Forse per controllare questo rischio, l’Arabia Saudita sta investendo nei giocatori e sviluppando il proprio campionato nazionale. Gli investimenti sportivi sauditi evidenziano anche altri possibili obiettivi: creare imprese e ricavi per un’economia post- petrolio. E veniamo alla questione etica. Dall’inizio del 2021, l’Arabia Saudita avrebbe speso almeno 6,3 miliardi di dollari solo in accordi sportivi, in quello che i critici hanno etichettato come un tentativo di distrarre dal rispetto dei diritti umani, compreso l’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi. “Non c’è nulla di nuovo nella pratica - taglia corto il giornale indiano - . I governi, sia i regimi democratici che quelli autoritari, hanno utilizzato lo sport o l’intrattenimento per mostrare e promuovere all’esterno le risorse economiche e culturali dei loro paesi. La critica spesso puzza di compiacente superiorità morale e ipocrisia. Nessuno si oppone agli investimenti statunitensi, nonostante Abu Ghraib, i discutibili interventi geopolitici o il trattamento riservato ai gruppi minoritari nazionali”. Lo stesso ex proprietario del Chelsea, Roman Abramovich, è molto apprezzato dai tifosi. “ Questa è la sindrome di Victor Kiam, l’uomo a cui piacevano così tanto i rasoi Remington che acquistò l’azienda e, guarda caso, la squadra di calcio professionistica dei New England Patriots. Le motivazioni dello sceicco Mansour di Abu Dhabi, la cui famiglia controlla il 10% delle riserve mondiali di petrolio, potrebbero essere simili”. Il controllo dei costi e i limiti salariali sono comuni negli sport statunitensi, come il football americano e il basket. L’orga no di governo del calcio europeo, la Uefa, sta cercando di limitare l’importo che i club che partecipano alle sue competizioni possono spendere per la propria squadra di gioco al 90% delle entrate, cifra che si ridurrà progressivamente al 70%. A differenza delle proposte precedenti, il mancato rispetto comporterebbe sanzioni, come divieti di trasferimento o limiti alle dimensioni della squadra. L’obiettivo finale del regolamento è ridurre gli stipendi dei giocatori. “La maggior parte dei giocatori professionisti - spiega il giornale - non guadagna cifre stratosferiche. Considerando le scarse possibilità di raggiungere i massimi livelli, una vita di allenamento, il rischio di infortuni, una carriera da giocatore relativamente breve e le incerte prospettive post-sportive, la remunerazione non è sproporzionata”. Lo sport rischia di concentrarsi tra una manciata di marchi globali, escludendo i club locali più piccoli e i loro sostenitori locali. I cambiamenti potrebbero distruggere l’imprevedibilità e l’ambizione che alimentano l’interesse per il calcio.



Raffaella Vitulano




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