“Un pugno e sei a terra, Nisa”: la miseria umana contro le donne atlete


Shirin Shirzad potrebbe parlare per ore delle violenze e delle molestie sessuali subite dalle atlete. Ex lottatrice e allenatrice della nazionale iraniana di wrestling, ha dovuto esiliarsi in Europa a causa delle minacce ricevute dopo aver denunciato gli abusi subiti dalle sue atlete. “Durante i miei anni da atleta e professionista in Iran, sono stata costantemente oggetto di intimidazioni, discriminazioni e abusi psicologici. Sono stata messa a tacere molte volte per aver denunciato le ingiustizie. Ho anche ricevuto commenti sgraditi da alti funzionari e, quando ho rifiutato le loro avances, mi hanno licenziata e hanno continuato a molestarmi”, ha dichiarato a Equal Times, in un’inchiesta sulle atlete a cura di Marga Zambrana. L’ex allenatrice ha denunciato le molestie sessuali subite almeno una volta da tutte le atlete della nazionale iraniana e gli abusi a cui lei stessa assisteva quotidianamente. Una sua collega, un’allenatrice sposata, riceveva videochiamate alle 4 del mattino da un allenatore senior. Lo ha segnalato alla federazione, ma è stata lei a finire sanzionata. Dopo aver lasciato l’Iran, si è sentita più sicura quando ha parlato pubblicamente degli abusi. Quando ha rilasciato la sua prima intervista a Iran International TV e ad altri media critici nei confronti del regime, ha ricevuto immediatamente minacce. “Diceva no che mi avrebbero rispedita in Iran nel peggior modo possibile”, spiega. Poliglotta con un dottorato di ricerca in scienze della salute e dello sport, Shirzad ha dovuto vivere nascosta in un remoto villaggio della Scandinavia per anni. “Ricevo ancora insulti su internet. Ma continuo a fare apparizioni televisive perché penso sia importante dire la verità”. La sua è purtroppo una come tante altre storie in Iran, dove le molestie nei confronti delle atlete sono sistematiche e provengono solitamente da allenatori e dirigenti. Rozita Aemeh-doost ha denunciato gli abusi sessuali subiti da lei e da altre giocatrici adolescenti. Shiva Amini, ex giocatrice di calcetto, vive in esilio dopo aver denunciato episodi di sextortion da parte di alti funzionari. Elham Nikpay ha accusato un dirigente di aver abusato di minori in una piscina, dove è stata anche assassinata una ragazza, in relazione agli abusi sulle atlete. E Golnar Vakil Gilani, ex presidente della federazione di polo, ha denunciato le minacce di un viceministro di diffondere immagini private. La maggior parte delle vittime non denuncia gli abusi per paura, e quelle che lo fanno vengono spesso punite, mentre i colpevoli godono di totale impunità. Non esistono canali sicuri o indipendenti per denunciare gli abusi e le barriere strutturali sono onnipresenti. Al pari dell’Iran, anche l’Afghanistan è un altro esempio di abusi istituzionalizzati nei confronti delle atlete, con vittime che subiscono rappresaglie, stigmatizzazione e nessun accesso alla giustizia. Haley Carter, ex marine e calciatrice statunitense, è stata assistente allenatrice della nazionale femminile e ha denunciato abusi sessuali e fisici da parte di funzionari, tra cui il presidente della federazione,Keramuudin Karim, sospeso a vita dalla Fifa nel 2019. Dopo l’arrivo deitalebani nel 2021, Carter ha contribuito alla fuga delle giocatrici e oggi si batte per i diritti delle donne attraverso l’Orlando Pride (Nwsl). “L’Afghanistan ha una pessima reputazione in termini di protezione delle atlete dagli abusi”,spiega alla giornalista di Equal Times. Le accuse di rapporti sessuali al di fuori del matrimonio possono avere conseguenze fatali, il che spiega il silenzio di molte vittime. “Quan do abbiamo provato a segnalarlo alla Confederazione calcistica asiatica, ci hanno risposto che avrebbero accettatola denuncia solo se fosse arrivata dal presidente o dal segretario generale, le stesse persone che stavano commettendo gli abusi”, racconta Carter. Dopo l’ar rivo dei talebani nel 2021, la nazionale di calcio femminile ha bruciato le proprie divise e cancellato i propri account sui social media.

“È stato l’inizio di una campagna sistematica per cancellare le donne dalla vita pubblica. Oggi sono bandite dallo sport, una violazione dei diritti che non esiste in nessun altro Paese”, denuncia. Poco dopo aver preso il potere, il funzionario talebano Ahmadullah Wasiq ha vietato alle donne di praticare sport, sostenendo che le loro uniformi avrebbero “esposto troppo i loro corpi”.

Da allora, le ragazze sono state private del diritto all’istruzione e, nel 2023, l’80% delle ragazze in età scolare non era iscritto al sistema scolastico. Alle donne è inoltre vietato l’ac cesso a spazi pubblici come parchi, palestre o centri sportivi. Si stima che l’esclusione delle donne dal mondo del lavoro costi al Paese 1 miliardo di dollari all’anno, pari al 5% del suo pil. In una palestra nel centro di Istanbul, la diciassettenne Yagmur Nisa Dursun allena kickboxing uomini che hanno il doppio della sua età e della sua stazza. Figlia dell’allenatore nazionale Yilmaz Dursun, gode del rispetto di tutti. “Ho iniziato grazie a mio padre, quando ero molto giovane. All’inizio non volevo, ma poi ho visto altre ragazze allenarsi e ho iniziato a invidiarle un po’”, spiega. Più della metà delle clienti della palestra sono donne. “Dato che in Turchia ci sono molti casi di violenza di genere, vengono qui principalmente per imparare a proteggersi”, afferma. Dursun riceve commenti sui social media come “un pugno e sei a terra”. “È una forma di molestia. È la miseria umana”.

Una delle sue allieve è una donna di 50 anni con un ordine restrittivo nei confronti dell’ex marito: “Sta divorziando e vuole diventare cintura nera”. La Turchia non ha ratificato la Convenzione 190 dell’Ilo sulla violenza e le molestie nel mondo del lavoro, che include lo sport. E i diritti delle donne sono stati ridimensionati sotto il governo di Recep Tayyip Erdogan. Nel 2004, le sollevatrici di pesi Sibel Simsek, Aylin Dasdelen e Sule Sahbaz hanno denunciato il loro allenatore, Mehmet Üstündag, per molestie sessuali e fisiche, avviando un’in dagine ufficiale. Lo hanno accusato di palpeggiamenti inappropriati, commenti sessuali e aggressione. Dasdelen lo ha anche ritenuto responsabile del suicidio della sua compagna di squadra Esma Can, avvenuto nel 1999. Üstündag è stato rimosso dal suo incarico e il caso ha segnato una svolta nella lotta contro gli abusi nello sport, evidenziando la necessità di meccanismi di segnalazione efficaci e di supporto istituzionale per le vittime. Nel 2021, Erdogan ha anche ritirato la Turchia dalla Convenzione di Istanbul. La giovane e minuta Yagm ur Nisa Dursun fa affidamento solo su se stessa e sulla sua tecnica di difesa rapida per proteggersi. “È molto difficile andare lontano negli sport da combattimento in Turchia. Ora che gestisco la mia palestra mi sento più a mio agio. Voglio essere un esempio per tutte le donne. Forse per tutta la Turchia”. La giovane donna ritiene che tornare alla Convenzione di Istanbul e rispettare la Convenzione 190 “salverebbe delle vite”.

“Nello sport mondiale, la portata degli abusi e delle molestie è schiacciante e l’incapacità delle istituzioni sportive di rispondere rende l’attuazione della Convenzione 190 dell’Ilo un’urgente necessità che non può essere ignorata”, ha dichiarato a Equal Times Matthew Graham, presidente di Uni World Players, il sindacato che rappresenta 85 mila professionisti dello sport in 60 paesi.

In Medio Oriente, Africa e Asia, le atlete subiscono violenze strutturali, tra cui molestie sessuali ed esclusione legale e sociale, con casi documentati in Pakistan, Marocco, Egitto, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Libano e Kazakistan. In Pakistan, ad esempio, la giocatrice di cricket Halima Rafiq si è suicidata dopo aver denunciato molestie sessuali ed essere stata accusata di diffamazione. Sebbene alcuni paesi abbiano avviato campagne di sensibilizzazione, nessuno ha attuato efficacemente la Convenzione 190 nel campo dello sport. Un caso promettente di emancipazione attraverso lo sport si può trovare nel campo profughi di Shatila in Libano, dove un progetto di basket ha permesso a oltre 150 ragazze di fuggire da ambienti violenti. Come avverte Shirin Shirzad, “le donne e le atlete iraniane sono completamente sole, perché la Repubblica Islamica non riconosce e non rispetta i diritti delle donne nel suo ordinamento giuridico”.

Shirin propone misure come l’inclusione delle donne nei processi decisionali, il divieto per le squadre maschili di competere a livello internazionale se la partecipazione femminile non è garantita, l’istituzione di meccanismi di segnalazione indipendenti e la punizione severa dei responsabili.

Durante le Olimpiadi di Parigi 2024, la velocista Kimia Yousofi ha sfidato il divieto imposto dai talebani e ha gareggiato per l’Afghanistan. “Rappre sento i sogni e le aspirazioni rubate delle donne afghane”, ha dichiarato. Shirzad trova anche speranza nel “co raggio delle donne iraniane che, anche nei momenti più bui, continuano a resistere e a mostrare al mondo che meritiamo una vita migliore. Quando una donna osa parlare, molte altre si sentono ispirate a far sentire la propria voce. Questo mi dà la forza di continuare. Noi donne iraniane risorgeremo un giorno, come la fenice”. Nel 2024, Human Rights Watch (Hrw) ha presentato un rapporto al Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro donne e ragazze nello sport, documentando la natura sistemica, globale e persistente di atti che vanno dalle molestie sessuali, agli abusi fisici ed emotivi, fino alle rappresaglie istituzionali contro i whistleblower, con esempi provenienti da paesi come Afghanistan, Mali, Cina, Giappone e Uganda.

Raffaella Vitulano


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