In & Out, così l'Europa perde credibilità

di Raffaella Vitulano

La fusione allo studio tra Deutsche Bank e Commerzbank e la sentenza Tercas riaprono il dibattito sull’incompiuta Unione bancaria europea e sulla posizione dell’Italia, nonché sul bail in, il sistema di risoluzione delle banche negoziato dai governi in Europa nel 2013, votato a Bruxelles nel 2014, approvato dal parlamento italiano nel 2015 ed entrato in vigore nel 2016. Partiamo ricordando la nascita nell’aprile 2009 del Financial Stability Board e il vertice Ue 2012 in cui Roma minacciò il veto contro l’approvazione del Fiscal Compact (originariamente nato come Patto per la stabilità e la crescita di cui si è perso il secondo elemento per strada imbrigliando l’Europa nelle rigidità del primo) per strappare alla Germania l’accordo sull’Unione bancaria. Un veto messo dal premier Mario Monti che propose regole uguali per tutti e una vigilanza unica come le garanzie. Nel 2013 Roma accettò poi di anticipare l’inizio dal 2018 al 2016 delle regole sul bail in con una direttiva che già dal nome metteva i brividi (2014/59 Brrd, Banking Recovery and Resolution directive) in cambio di promesse sul Fondo di risoluzione., poi non mantenute da Berlino. E l’obiettivo finale agognato dall’Italia di un’Unione bancaria è stato rinviato e sempre più condizionato alla riduzione dei crediti deteriorati. Oggi c’è chi si chiede se ne è valsa la pena. Di un Fiscal Compact che va assolutamente rivisto; di un bail in scomposto. Da qui lo sbotto del ministro Tria che ha accusato i tedeschi di avere ricattato sul bail in il ministro del governo Letta, Fabrizio Saccomanni e tutto il dibattito che ne è seguito. Sono anni che Conquiste ne scrive, ma oggi è meglio ricordare come le regole del bail in prevedano, in caso di difficoltà di una banca, che oltre agli azionisti siano anche obbligazionisti e correntisti con oltre €100.000 a concorrere al risanamento. Una normativa considerata negli ultimi tempi ” affrettata”, inapplicabile e che ”rischia di minare la fiducia nelle banche e generare instabilità”: le bordate di Bankitalia si sommano a quelle dell’Abi. Il bail-in è entrato in vigore nel 2016 ma sarebbe stato affrettato perché ha preceduto di ben 8 anni la piena entrata a regime di un suo essenziale presupposto, il cosiddetto cuscinetto Mrel, ovvero un fondo di passività bancarie pronte ad essere ridotte o convertite in nuovo capitale e destinate a investitori istituzionali senza colpire i depositanti. Oggi c’è chi chiede il superamento del bail in, ma la modifica di una direttiva europea presuppone che ci sia tra gli Stati un larghissimo consenso, di cui non si vede nemmeno l’ombra. Eppure il 30 maggio 2018 due autorità europee (European Banking Authority e European Securities Markets Authority) hanno emanato un importante documento, in cui ammettono che l’applicazione del bail-in agli investitori al dettaglio solleva seri problemi. Peccato nessuno ne tenga conto mentre l’assenza di trasparenza e informazione non fa che aumentare demagogie e angosce dei risparmiatori, minando la credibilità del sistema bancario, già messo a durissima prova. Per non parlare della storica sentenza del Tribunale Ue sul caso Tercas. Accolto il ricorso dell’Italia: l’adesione al il Fondo interbancario per la tutela dei depositi (Fitd) non fu aiuto di stato. Il prezzo del no a suo tempo da parte della Commissione Ue è oggi stimato in 12 miliardi di euro di risorse che sarebbero state utilizzate in maniera più produttiva per erogare credito ed effettuare ricapitalizzazioni. La sentenza appena emanata della Corte europea sulla gestione delle crisi bancarie ribalta la rigida posizione della Commissione Ue sugli aiuti di stato. Dovrebbe insegnare alle istituzioni europee a essere ora più pragmatiche e vicine ai cittadini: ”Le cessioni massive di crediti - indirettamente imposte dall’arbitraria decisione della Commissione Ue - si potevano evitare, destinando le rilevanti plusvalenze derivanti dalla loro gestione paziente, come allora propose First Cisl, al risarcimento dei risparmiatori e alla salvaguardia dell’occupazione, senza nessun aggravio di spese per le casse dello Stato”. Errori di questo tipo costano caro all’Europa. Rendono le istituzioni europee invise ai cittadini. E rendono la Germania ancora più antipatica, se consideriamo che quella che a occhio nudo potrebbe sembrare la classica operazione di libero mercato, il frullatore tra Deutsche Bank e Commerzbank, sembra piuttosto un escamotage messo in atto da Berlino per evitare di accollarsi la responsabilità del bail in, perché caricare i cittadini tedeschi dei disastri di Deutsche Bank, sarebbe troppo. In o out? Meglio agire d’astuzia dimenticandosi delle lezioni impartite ad altri Paesi, dimenticandosi la coerenza, parola intraducibile in tedesco.

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