Ma Banca mondiale ed Fmi sono davvero indipendenti?

di Raffaella Vitulano

La scorsa settimana il presidente Donald Trump ha nominato alla guida della Banca Mondiale l’ex economista della Bear Stearns, David Malpass, con una reputazione ben consolidata di falco nei confronti della Cina. Oltre a scegliere il suo presidente, gli Stati Uniti sono anche il maggiore azionista della Banca mondiale, il che ne fa l’unico paese membro a disporre del diritto di veto. Inoltre, il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, ex banchiere di Goldman Sachs e “re dei pignoramenti”, Steve Mnuchin, ha anche le funzioni di governatore della Banca. Sebbene il Fondo monetario internazionale sia diverso nella missione e nel suo obiettivo, anch’esso è largamente dominato dall’influenza e dai finanziamenti del governo degli Stati Uniti. Sebbene gli Stati Uniti non scelgano l’alto dirigente dell’ Fmi, grazie alla posizione privilegiata come principale finanziatore dell’istituzione possono controllare le regole del Fondo minacciando di trattenere i fondi se l’istituzione non si attiene alle richieste di Washington. Un esempio pratico? Lo scorso luglio gli Stati Uniti hanno minacciato di colpire l’Ecuador con “misure commerciali punitive” se avesse proposto un provvedimento alle Nazioni Unite per sostenere l’allattamento al seno rispetto a quello con latte artificiale, una mossa che ha stupito la comunità internazionale ma ha anche messo a nudo la volontà del governo Usa di usare “armi economiche” contro decisioni non gradite. Come conseguenza dell’influenza asimmetrica degli Stati Uniti sul comportamento di queste istituzioni, queste organizzazioni hanno usato prestiti e sovvenzioni per "intrappolare" nazioni in debito e hanno imposto programmi di "aggiustamento strutturale" a governi indebitati tradotti in privatizzazione di massa dei beni statali, nella deregolamentazione e nell'austerità che favoriscono abitualmente le imprese straniere rispetto alle economie locali (leggi Grecia). Fmi e Banca Mondiale - che per la  Ue sono parte della Troika -  non sarebbero insomma istituzioni finanziarie internazionali del tutto “indipendenti” ma verrebbero utilizzate come armi di guerra non convenzionale. Lo denuncia Wikileaks citando documenti ufficiali delle forze armate americane e la notizia sortisce un effetto notevole. L’autore di un articolo Usa, Whitney Webb, riporta che in un manuale militare sulla “guerra non convenzionale” l’esercito Usa considera le principali istituzioni finanziarie globali - come la Bm, l’Fmi e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) - come “armi finanziarie non convenzionali da usare in conflitti che possono includere guerre generali su larga scala”, e per fare leva sulle “strategie e relazioni tra stati”. Il documento, il cui titolo letteralmente recita “Field Manual (FM) 3-05.130, Army Special Operations Forces Unconventional Warfare”, originariamente redatto nel settembre 2008, evidenzierebbe poi come la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale e l’Ocse, nonché la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), siano le “sedi diplomatico-finanziarie con le quali gli Usa realizzano” tali obiettivi. Per riconquistare terreno nel dopoguerra, gli Stati Uniti si mossero simultaneamente su più piani, affiancando al tradizionale approccio bilaterale quello indiretto tramite Banca Mondiale e, soprattutto, Fondo Monetario Internazionale, i due principali istituti finanziati fondati in base agli accordi di Bretton Woods del 1944. Nonostante il loro funzionamento contemplasse la partecipazione di larga parte dei Paesi mondiali, tali istituzioni hanno costituito le armi economiche di cui Washington - che di esse detiene una sorta di ‘quota di maggioranza di controllo’ - si è servita per implementare la propria politica di soft power. Come già scrisse nel 1933 John Maynard Keynes  ”la protezione da parte di un Paese dei suoi interessi all’estero, la conquista di nuovi mercati, i progressi dell’imperialismo economico, sono elementi ineliminabili della politica di coloro che vogliono massimizzare la specializzazione internazionale e la diffusione geografica del capitale”. Il problema evidenziato da Keynes era del resto già stato snocciolato nel 1898 in un documento del Dipartimento di Stato in cui si legge che ”sembra ormai accertato il fatto che ogni anno ci troveremo di fronte a un’eccedenza crescente di prodotti manifatturieri da vendere sui mercati esteri se vogliamo che i lavoratori e gli artigiani americani rimangano occupati anno dopo anno. L’allargamento del consumo estero dei prodotti delle nostre fabbriche ed officine è diventato, quindi, un serio problema di Stato e di politica commerciale”.

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