Design, in Europa solo il 25% di modelli vengono creati da donne


Vi è piaciuta la settimana del design a Milano? Ma vi siete mai chiesti che percentuale di donne ci sia dietro i capolavori del made in Italy, e non solo? Ebbene, sappiate che in Italia solo il 25% dei designers è donna e con l’attuale tasso di crescita serviranno più di 50 anni per colmare il divario. Le designer europee guadagnano poi in media il 12,8% in meno dei colleghi maschi (il 9,5% in Italia) e lavorano prevalentemente nei settori farmaceutico, cosmetico, degli oggetti per uso ornamentale e dei prodotti tessili. All’altro estremo, gli strumenti musicali, le armi, gli articoli pirotecnici, gli articoli per la caccia, la pesca e l’eliminazione di animali nocivi, così come i fabbricati e gli elementi da costruzione sono i prodotti meno frequentemente ideati dalle donne. Cifre alquanto desolanti, se pensiamo che il nostro paese punta molto sulla progettazione. E questo riguarda la moda come il design e molti altri settori. Il dato emerge dalla ricerca Women in design, il primo studio condotto dall’Euipo (Ufficio europeo per la proprietà intellettuale) dedicato al divario di genere nella Pi (proprietà intellettuale) e rilasciato in occasione della Giornata mondiale della proprietà intellettuale. Altro che Claire McCardell, che affrontò l'industria della moda e rivoluzionò ciò che le donne americane indossano con un semplice abito di lana. In pratica, solo 1 designer su 4 nella Ue è donna. Percentuale ben al di sotto dei livelli di Corea del Sud, Cina e Stati Uniti. Solo il 21% dei disegni registrati nell’Ue aveva tra i suoi autori almeno una donna. Nella Ue, i paesibaltici hanno (33% in Lettonia) la più alta percentuale di donne rispetto ai designer; i Paesi Bassi (17%), l’Ungheria (18%) e la Slovacchia, la piùbassa. Belgio, Danimarca, Germania, Estonia, Irlanda, Grecia, Francia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia, Finlandia, Svezia hanno quote di ideatrici superiori alla media Ue del 20,9%. La quota delle designers e di designs creati da donne in Europa è aumentatanegli ultimi due decenni, ma molto lentamente, e al ritmo attuale servirebbero addirittura 51 anni per colmare il divario. La Corea del Sud è ben al di sopra dei livelli dell’Ue e quasi la metà dei disegni o modelli depositati da imprese coreane ha almeno un’ideatrice. Anche la Cina e gli Stati Uniti mostrano una percentuale più elevata, con circa il 40% dei disegni depositati che vede una presenza femminile. Per il Direttore esecutivo dell’Euipo, Christian Archambeau, la parità di genere è uno degli obiettivi fondamentali dell’Ue. È inoltre un imperativo in tutte le professioni, anche nel settore della proprietà intellettuale a fronte del divario di genere attualmente esistente nell’ambito della proprietà intellettuale dell’Ue. Il divario di genere nella professione di ideatore di disegni e modelli è la conseguenza di una segregazione settoriale e professionale di genere, o della concentrazione di un genere in determinati settori e professioni, il che può spiegare la differenza di retribuzione tra uomini e donne, tendendo queste ultime a essere concentrate in occupazioni a bassa remunerazione. Le ideatrici di disegni e modelli rappresentano quasi il 40% di queste figure nei settori della pubblica amministrazione, dell’arte, dell’in trattenimento, della salute umana e dell’assistenza sociale. Il divario di genere in queste professioni si spiega con una percentuale molto bassa di donne che lavorano come ingegnere elettrotecniche e sviluppatrici e analiste di software e di sistemi di archiviazione. La percentuale di donne tra specialisti di scienze fisiche e della terra, architetti, urbanisti, geometri e progettisti è più elevata, superando il 50% in tali professioni in sette Stati membri dell’Ue. La retribuzione oraria lorda media degli ideatori di disegni e modelli è del 50% superiore alla retribuzione media di tutti i dipendenti, sia per le donne sia per gli uomini, ma l’analisi ha anche confermato un differenziale retributivo di genere nelle occupazioni legate ai disegni e modelli.

Raffaella Vitulano




Quanti vestiti dovremmo acquistare all’anno per essere sostenibili? 

Come possiamo contenere l’im patto ambientale del fashion system? Acquistando al massimo 5 capi all’anno. A sostenerlo è il il report “Unfit, Unfair, Unfashionable: Resizing Fashion for a Fair Consumption Space” pubblicato da The Hot or Cool Institute e Rapid Transition Alliance e condiviso da Wwd. Cifre in linea con altri studi, come quello di C40, che ne prevede addirittura 3. Il settore della moda è uno tra i più inquinanti al mondo: entro il 2050 potrebbe essere responsabile del 25% delle emissioni globali. Parte del problema, sempre secondo lo studio, dipende dalle fasce di popolazione più ricca. In media, il 20% degli acquirenti più benestanti inquina 20 volte di più del 20% degli acquirenti più poveri. Il problema principale è legato alla fast fashion, ma anche ai resi, il cosiddetto fenomeno dell’average return rate, ovvero ordinare online più taglie dello stesso capo, provarle e poi decidere quali restituire. Ciò genera enormi quantità di rifiuti tessili inquinanti. Un’indagine condotta da Greenpeace Germania, su 47 prodotti Shein acquistati in Italia, Austria, Germania, Spagna e Svizzera, ha dimostrato che “il 15% hanno fatto registrare, nelle analisi di laboratorio, quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee”.

Ra.Vi.

Workwear, uno dei protagonisti dello street style alla Milano Design Week 

Città trasformate in grandi passerelle a cielo aperto dalle Fashion week e dalle Design Week. In un momento di ibridazione massima tra discipline e dalle infinite stratificazioni culturali “le strade diventano cornucopia di correnti stilistiche che rispecchiano la molteplicità dei progetti esposti tra Salone e Fuorisalone. Parafrasando Gillo Dorfles, nel binomio moda-modi oggi sono i secondi a tenere banco”: è quanto sottolinea un’analisi di Domus a firma di Lorenzo Ottone, che evidenzia come tra i filoni intercettati dalle fotografie di Matteo Valle emerge uno stile che insegue l’uti litario, confermando un certo amore della comunità del design per il workwear e le giacche da lavoro, dolceamara e implicita constatazione della società - come scrive il giornalista Ivan Carozzi nel suo ultimo saggio per Eris Edizioni - del “Fine lavoro mai”. E così gli abiti diventano “la Cocoon di un pubblico che cerca di bilanciare formalità a streetwear, come se il baseball cap smorzasse la formalità di blazer e cravatta, e la sneaker si sostituisse a brogue e mocassini come calzatura ufficiale da ufficio”.

Ra.Vi.

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