“La guerra, orrendo immondezzaio. Macello medioevale lontano da Bruxelles”
Seimila volte più leggera di un capello, la fibra di amianto scivolava serena nel cielo di Sarajevo. Bombardamenti furiosi l’aveva no liberata dalla prigione di Eternit e cemento dentro cui era stata costretta da anni di realismo socialista e adesso, spinta dai Balcani, volava finalmente libera insieme agli stormi di rondini che seguivano il richiamo misterioso che da sempre governa le vite degli uccelli migratori”.
Franco Di Mare - recentemente scomparso - le aprì le porte della sua vita con un sospiro, come lui stesso racconta nel suo ultimo libro “Le parole per dirlo” - in un momento qualunque, commentando gli effetti di una pioggia di granate in città o più banalmente mangiando burek e bevendo rakija, ascoltando una di quelle loro nenie tristi e definitive. “Un respiro, uno solo. E da quel momento la fibra rimase lì, nascosta, per tutti gli anni a venire”. Il suo libro ha una premessa che è anche una promessa: non è un libro pietistico ed è rivolto a chi odia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie. Non ha chiesto pietà, Franco Di Mare, e lo spiega bene: “A me il mesotelioma non è mica arrivato per caso. Io me lo sono proprio andato a cercare” nei luoghi in cui cresceva e proliferava, “ho vissuto in molte delle immense incubatrici dove l’a mianto aveva liberato miliardi e miliardi di particelle invisibili nell’aria formando una cappa venefica su intere aree d’Euro pa”. Ma se l’ha fatto è perché l’azienda gli ha chiesto di farlo. E lui lo ha fatto, acquistando per duecento dollari da un giornalista francese un unico giubbotto antiproiettile da condividere con l’operatore nella prima missione da inviato di guerra, dormendo per terra su fogli di giornale stesi su moquettes lise e macchiate a Sarajevo. E’ lì che il giornalista scoprì i “gran di limiti del nostro approccio ad un lavoro che intanto era profondamente cambiato e che imponeva un adeguamento veloce,consapevole e responsabile”, ancora oggi non proporzionato alle necessità. Quando lavori in aree in cui la coibentazione di palazzi, fabbriche, siti industriali è fatta utilizzando lanugine e materiali ricavati dall’a mianto, il rischio di tumori inguaribili è altissimo. Per non parlare delle zone di guerra in cui l’impatto delle pallottole ad uranio impoverito genera nuvole con schegge e micro particelle che continuano a lungo ad emettere radiazioni. Durante la guerra era in attività solo la fabbrica del tabacco, tabacco che è stato contaminato da uranio e che ne ha fatto riscontrare particelle nelle sigarette in commercio a Sarajevo a distanza di anni. Lo stesso fenomeno si sarebbe registrato anni dopo, l’11 settembre, con 180.000 ammalati nella sola Manhattan: nella coda e nelle ali degli aerei dirottati dai terroristi era infatti presente uranio, utilizzato come stabilizzatore. Perfino i cani usati a Ground Zero per la ricerca dei dispersi sono tutti morti dopo nemmeno un anno per tumore ai polmoni, riporta l’Osservato re Nazionale Amianto. I racconti di Hemingway che lui ha amato restano sullo sfondo ma Franco Di Mare, figlio di un sindacalista che da bambino viveva a Mergellina, allependici della collina di Posillipo e aveva frequentato la parrocchia di Fuorigrotta (zona popolare di Napoli) ha ricomposto nei suoi reportages gli orrori della guerra con una delicatezza dello sguardo che lui preferiva: cercando sul posto storie da raccontare evitando grandi analisi strategiche e geopolitiche. Come le storie di cecchini e ciliegie, di coppie uccise insieme, di vite logorate dall’attesa della morte. E la guerra per lui resta quello che è: “Un orrendo immondezzaio, un macello medioevale lontano dai tavoli di Bruxelles, dalle dichiarazioni politiche, dalle posizioni
dei governi, dalla descrizione degli schieramenti militari in campo, dalle cartine geografiche e dalle immagini d’archivio di cacciabombardieri in volo e cingolati in marcia lungo strade sconosciute”. Il tema dell’amianto e dell’ura nio impoverito stenta a farsi largo. Di Mare ne aveva moderato una tavola rotonda lo scorso novembre e quei proiettili che esplodevano fino a 5000 gradi avevano incendiato la platea. Ne aveva viste e documentatetante di atrocità, quel giornalista che trovava il tempo sotto i bombardamenti di inviare corrispondenze prive di retorica anche a noi a “Conquiste”. “In Ruanda”, aveva raccontato invece a Famiglia Cristiana, “gli Hutu lanciavano in aria i neonati e facevano a gara per vedere chi riusciva a colpirli col machete più volte, prima che cadessero a terra”. La sua fede ha vacillato davanti alla parabola di un mortaio che fece a pezzi bambini in un cortile ma il suo legame con la Vergine Maria lo professava nell’immagine di una Madonna di Fatima che portava sempre nel giubbotto. Anche sua madre si chiamava Maria, gli preparava da bambino la parmigiana di melanzane cantando Luna Rossa mentre lui ne seguiva rapito la danza dei movimenti col mento appoggiato sul tavolo della cucina. Quelle Madeleines proustiane al sapore di pomodoro e basilico gli spalancavano ancora pochi giorni fa le porte dell’infanzia. C’è la guerra fuori. Quella raccontata sulle nostre pagine da Alessandra Mulas (anche lei deceduta dopo diverse missioni in Siria per documentare l’escalation chimica della guerra nel paese). O quella fotografata da Giuseppe Moneta, probabile vittima della sindrome dei Balcani. La sindrome dei Balcani - scrive l’Osservatorio nazionale amianto - è una sindrome che include diverse malattie, solitamente legate al sistema emopoietico e cioè agli organi responsabildella produzione degli elementi cellulari del sangue. La Sindrome dei Balcani è legata all’utilizzo di armi all'uranio impoverito. In particolare, a causare queste malattie sarebbe l’i nalazione e l'assorbimento di nanoparticelle prodotte per combustione ad altissima temperatura di bersagli metallici colpiti dai proiettili all’uranio impoverito utilizzati nelle operazioni militari. Le armi all’u ranio impoverito furono usate per la prima volta nei Balcani. Gli effetti del metallo sono stati spesso acutizzati da un’errata procedura vaccinale. In alcuni casi le cause legali sono ancora in corso. La Sindrome dei Balcani non è dovuta solo all’uranio impoverito, ma anche a microparticelle sprigionate durante le esplosioni sotto forma di polveri (il cosiddetto inquinamento bellico). Queste polveri di 0,1 micron, una volta inalate, possono arrivare nel sangue in soli 60 secondi, in un’ora sono già nel fegato e quando si accumulano negli organi la loro capacità tossica fa il suo decorso.
C'è la guerra fuori, dicevamo. E poi c’è la guerra dentro, quella con la propria coscienza di fronte all’orrore. Nessun inviato può tornare dalla guerra come prima assistendo a ferine bestialità. Nel 1992 Di Mare intervistò un miliziano a Sarajevo proveniente dalle campagne circostanti che aveva imparato a uccidere gli esseri umani dai maiali perché diceva che il collo umano era come quello dei suini; si sedeva sui nemici, spingeva la loro testa indietro e gli bucava il collo finché trovava l’arteria da dove spillava il sangue. L’uomo era un assassino seriale e uno stupratore “tranquillo e indifferente con quella indifferenza demoniaca di chi non crede nel bene”. Di Mare ne restò scioccato: “Noi immaginiamo il demonio con gli zoccoli e le corna; invece si manifesta nell’anima e nel corpo di gente che è lo specchio di noi stessi. Negli occhi di quei miliziani avevo trovato il buio, il baratro, c’era il demonio al lavoro, come disse il giornalista Ryszard Kapuscinski. Quei soldati ammazzavano così con il gusto di farlo, poi tornavano a casa e riabbracciavano i propri figli. Mi chiedevo cos’era successo a quelle persone che erano identiche a me, capii che la guerra fa saltare tutti i codici del diritto e della religione: in questo c’è la dimostrazione del demonio sulla terra”. Con lui, sempre pervaso dalla curiosità, condividemmo anche giorni di trasferta durante le immense manifestazioni a Parigi nel novembre 1995. Tre settimane di scioperi per piegare il primo ministro Juppé sul piano di riforme che avrebbe acuito le fratture sociali in Francia. È lì che compresi, sulle note di una musica jazz che scandiva le nostre ore di lavoro in piazza nella città surrealisticamente paralizzata sotto la neve, la sua passione per il mestiere da inviato che ancora oggi definisco incredibile, misto di leggerezza (non superficialità), senso di responsabilità e una dose di eccentricità.
Raffaella Vitulano
- Ottieni link
- X
- Altre app
Commenti
Posta un commento