Un deserto vestito di stracci. L'etica spregevole del fast fashion

 di Raffaella Vitulano

Ma davvero il post- pandemia ha ridefinito l’assetto del mercato del lusso e reso la moda più accessibile? A Sanremo in questi giorni va di moda l’elogio alle sartorie italiane ma anche alla normalità, fatta di abiti di pregio ma già indossati, proprio come nella vita di tutti i giorni, non affidandosi a nessuno e riciclando abiti nell’armadio, donando una seconda vita ad alcuni outfit. Il fast fashion, tossico per molti punti di vista ma incredibilmente amato dai giovani, ha trasformato radicalmente l’industria tessile. Pensate che di questi tempi ogni anno vengono venduti 56 milioni di tonnellate di vestiti. Montagne di abbigliamento che presto diventano immondizia che invade deserti, fiumi e località nel mondo. Il fast fashion ti consente abiti da 5 dollari ricchi di elettricità statica, camicie che si disintegrano al minimo accenno di un ciclo di centrifuga. Scarpe in plastica che disintegrano le ossa del piede. Piumini sintetici che provocano reumatismi. Perché il problema non è la materia prima - che può essere una fibra di riciclo innovativa e non necessariamente una fibra naturale - ma la qualità di tale fibra, che la moda usa e getta non può in alcun modo garantire, se non altro per questioni di costi e profitti. Prendiamo ad esempio il materiale preferito dai produttori di fast fashion, la viscosa ricavata da fibre di legno. O il puro cotone, che viene coltivato nel sud del mondo, particolarmente nel sudest asiatico, in India, in Africa, in Sud America. Uno dei primi problemi è quello dei pesticidi: basti pensare che il 25% di tutti i pesticidi utilizzati in agricoltura in un anno viene spruzzato proprio sulle piante di cotone. I pesticidi, oltre a fare malissimo alle persone che coltivano il cotone senza protezioni, rimangono nelle fibre del cotone stesso e quindi nei capi. Poi c’è la questione delle tinture e dei metalli pesanti. Le dune nel deserto di Atacama sono la discarica dei vestiti usati, il riciclo del fast fashion affoga le strade di Accra. Al mercato di Kantamanto, in Ghana, arrivano ogni settimana circa 15 milioni di capi di abbigliamento usati che provengono dai Paesi occidentali e l’intera popolazione nazionale conta solo 30 milioni di abitanti. I camion scaricano balle di tessuti (non a caso chiamati ‘Dead white man’s clothes’) al mercato ma il 40% di tutte le cataste di abbigliamento inviate in Ghana finisce nelle discariche, si legge nei report consultati dalla Cbs.

I capi d’abbigliamento cheap hanno dunque unprezzo elevato, a dispetto del cartellino: un’esistenza precaria per i lavoratori del settore e un impatto ambientale catastrofico.

Le aziende internazionali sono bloccate in una corsa in corso per creare nuovi stili e ottenere maggiori profitti. E questa gigantesca espansione è destinata a continuare: si prevede che il settore crescerà del 60% entro il 2030. Lo shopping compulsivo è diventato una vera e propria attività di svago alimentata dai social, soprattutto in pandemia. Abiti usa e getta e lavori usa e getta, cuciti da un esercito di operaie e consegnati da corrieri all’inter no della precaria gig economy. Produttori come Calvin Klein, Tommy Hilfiger e Izod si stanno allontanando dalla Cina e verso l'Etiopia, dove i lavoratori sono pagati solo 26 dollari al mese, il salario più basso del mondo. L’Etiopia non ha un salario minimo legalmente obbligatorio per il settore privato.

L’industria tessile è il settore con il secondo prezzo ambientale più alto al mondo. Dall’acqua che utilizza e inquina, agli operai agricoli avvelenati dai fertilizzanti o spinti al suicidio da debiti in aumento, la moda è un affare davvero sporco: il report Mc-Kinsey Fashion on climate, stilato nel 2020 con Global Fashion Agenda (Gfa) ha dimostrato come “solo” nel 2018 l’indu stria della moda è stata responsabile del 4% delle emissioni globali. Per non parlare dello sfruttamento di terreni, dell’uso di pesticidi, del popolamento delle discariche con gli abiti dismessi e delle emissioni nocive. L’in dustria della moda ama sfoggiare le sue credenziali di sostenibilità, ma la realtà è esattamente l’opposto. Secondo il rapporto sullo stato della moda del 2022 di McKinsey & Company, le vendite di moda non di lusso sono diminuite del 20% nel 2020, ma sono rimbalzate a metà del 2021 con una domanda repressa che ha creato picchi di cosiddetti 'acquisti di vendetta'. Negli Stati Uniti, New York sta introducendo un disegno di legge in cui le aziende di abbigliamento dovranno mappare il 50% delle loro forniture a tutti i livelli di produzione.

Il discorso sugli acquisti a poco prezzo conduce inevitabilmente ad una domanda: la moda può essere democratica? Forse la moda può essere democratica, ma lo stile no. Lo spaccato sociale emerso nel post-pandemia è netto: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri. I marchi di moda di fascia alta contribuiscono a un problema di vecchia data nel consumo classista. Dettano le tendenze della moda in tutte le sfere, ma non sono alla portata di molti. Tuttavia, combattere le aziende di moda di fascia alta come Chanel e Versace boicottandole, non è il modo per rallentare l’impatto ambientale della moda. Ma si può chiedere loro un impegno maggiore sul riciclo e sulla rivendita dell’usato, ad esempio, per combattere le contraffazioni e aumentare la sostenibilità delle scelte di consumatori con minore disponibilità. Acquistare usato in ottime condizioni è uno dei modi più sostenibili di fare shopping. Basta guardare le proposte sui siti specializzati. Anche il noleggio di capi, soprattutto quelli più costosi, è ormai trendy. Marchi di fast fashion, invece, come Zara e Forever 21, Shein e Fashion Nova, utilizzano la produzione di massa ma raramente dai clienti ricevono critiche per il loro impatto ambientale. Eppure spesso si limitano al cosiddetto green washing, una ripulitura d’immagi ne d’apparenza. Reuters ha riferito che la cinese Shein deve ancora divulgare informazioni sulle condizioni di lavoro dei suoi dipendenti della fabbrica al governo britannico, cosa che il rivenditore è tenuto a fare ai sensi della legge britannica. Shein aveva anche precedentemente dichiarato falsamente che le sue fabbriche erano certificate da organismi internazionali di standard del lavoro, secondo Reuters. Tuttavia, poiché è diventata un’azienda molto influente, è facile che la lascino fare. Una ricerca diffusa mesi fa con il titolo “Money Heist”, furto di denaro, disponibile su asia.floorwage.org, descrive una “crisi umanitaria devastante e prolungata” nel settore del fast fashion. Sostiene che con la pandemia si è consumato un vero e proprio “furto di salario” ai danni di milioni di lavoratori, e che le marche occidentali della “moda pronta” ne sono direttamente responsabili. Crollate le vendite, i brand internazionali hanno rifiutato di prendere nuovi ordini e pagare quelli già pronti. I fornitori, per salvarsi, hanno scaricato la crisi sui lavoratori.

Raffaella Vitulano





Il più grande furto salariale in migliaia di fabbriche in India 

Ifornitori di grandi case di moda non pagano il salario minimo ai propri lavoratori. Nello specifico, ciò che emerge dall’indagine dell’orga nizzazione internazionale per i diritti dei lavorati Wrc (Workers Rights Consortium), è la grave situazione dei dipendenti delle maison nello stato indiano del Karnataka. Sono più di 400.000 i lavoratori tessili in Karnataka che non ricevono il salario minimo legale dello stato dall’aprile 2020 e, per questo motivo, stanno letteralmente soffrendo la fame. Il Karnataka è una delle zone più importanti per l’industria dell’abbigliamento dell’India e ci sono migliaia di fabbriche con centinaia di migliaia di lavoratori. Ecco perché si parla del più grande furto salariale dell’indu - stria della moda e fautori di questa insolenza sono i fornitori di enormi marchi padri della cosiddetta fast fashion come Zara,Nike, Puma, H& M, C& A, Tesco, Gap, Marks & Spencer.

Come riporta The Guardian, secondo la stima del Wrc l’impor to totale dei salari non pagati finora supererebbe i 41 milioni di sterline (quasi 50 milioni di euro).

Ra.Vi.

Mango e Shein, due colossi che la pandemia ha solo sfiorato 

Nonostante i lockdown e le restrizioni anti-Covidabbiano minacciato i risultati dei negozi fisici, icosiddetti ‘brick and mortar’, Mango non ha perso fiducia nei punti vendita e prevede di tornare alla redditività. Se nella prima metà dell’esercizio2021 il marchio iberico aveva corso a +21% rispetto al 2020 “avvici nandosi ai livelli pre-pandemia”, ora punta a raggiungerli. Con il digitale balzato in avanti del 37% su base annua e dell’85% sul 2019, Mango ha come obiettivo il miliardo di fatturato online. La Borsa è invece più vicina per Shein, il gigante online di fast fashion fondato da Chris Hu nel 2008, che starebbe considerando l’i dea di spostare la sua cittadinanza a Singapore, in modo da aggirare le dure regole vigenti per le Ipo offshore in Cina, soprattutto dopo le crescenti tensioni Usa-Cina. L’azienda con sede a Nanjing è uno dei più grandi marketplace di moda online del mondo e nel 2021, complice anche la pandemia, ha generato ricavi per 100 miliardi di yuan (circa 14 miliardi di euro). Reuters ha evidenziato che all’inizio del 2021 la valutazione della società era di circa 50 miliardi di dollari e che nel giro di un anno è quasi raddoppiata.

Ra.Vi.


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