L’ideologia woke nella moda tra business e creatività


Nell’ultima settimana il settore della moda ha vissuto molti scossoni per alcuni fatti ed avvicendamenti aziendali che lasciano davvero riflettere. Una cosa sembra ormai certa: l’ideologia woke sta permeando anche il fashion. Cosa significa esattamente? Woke è un uso aggettivale del simple past (passato remoto) del verbo to wake (‘svegliare’). Woke, letteralmente “sveglio”, è un aggettivo della lingua inglese con il quale ci si riferisce allo “stare all'erta”, “stare svegli” nei confronti di presunte ingiustizie sociali o razziali. Nella pratica, si riferisce a persona che, esibendo il proprio orientamento politico progressista, ha un atteggiamento rigido o sprezzante verso chi non condivide le sue idee. Il suo primo uso risale agli Stati Uniti degli anni 40. Ma a farlo tornare di moda sono stati il Me Too e l’anno scorso il Black Lives Matter, il movimento per i diritti civili degli afroamericani. Questi due movimenti puntano ad una lotta senza quartiere a ogni aspetto di una cultura occidentale intesa come patriarcale, razzista e oppressiva. Stay woke è quindi ormai percepito come l’invito a combattere incessantemente per rendere pura la nostra società, epurandola di tutto ciò che è impuro: statue, libri, idee, in una furia iconoclasta sempre più forsennata. Pensiamo anche a chi sta imbrattando opere d’arte nei musei. Espressione radical chic, impera nelle redazioni dell’Obs, di Libération e di Le Monde da quando il politically correct e l’ideologia woke di matrice americana hanno fatto irruzione nel dibattito pubblico francese, come in quello italiano. L’economista Werner Sombart scriveva: “La moda è la figlia prediletta del capitalismo, nasce dalla sua intima essenza ed esprime il suo carattere come pochi altri fenomeni della nostra vita sociale contemporanea”. In pratica, l’abbigliamento non è un prodotto ma una merce, come tanta. Le persone passano, i brand (a volte) restano. Lo scorso 15 novembre Tom Ford vende il suo marchio al colosso della cosmesi Estée Lauder per 2,8 miliardi di dollari. Il 21 novembre Balenciaga pubblica sul suo sito foto di bambini che tengono in mano orsacchiotti di peluche imbragati in bretelle da giochi sadomaso per adulti, in stanze piene di giocattoli dove fanno capolino bicchieri di vino, sex toys, collari con borchie, nastro adesivo con la parola Baal (che oltre a richiamare il marchio è il nome di una antica divinità fenicia a cui venivano offerti bambini in sacrificio umano) e chi più ne ha più ne metta. Sul caso insiste il giornalista Tv americano Tucker Carlson. Ma l’ideologia woke e la libertà d’espressione artistica vengono evocate a piè sospinto ad ogni accusa di normalizzazione della pedofilia per diventare nella percezione diffusa una mera forma di comportamento sessuale che occorrerebbe in qualche misura accettare nella finestra di Overton. In un altro scatto di Balenciaga ci sarebbero un libro dedicato al pittore Michael Borremans, in una cui opera bambini di due o tre anni giocano con il fuoco e con quelle che sembrano essere arti umani. Anche con modelli adulti, le pubblicità di Balenciaga amano giocare con simbologie massoniche e cataloghi artistici che esaltano il muscolo cremastere. Una creatività di gusto davvero dubbio. Come la foto di un’altra campagna del marchio che avrebbe mostrato una pagina tratta dall’Ashcroft vs Free Speech Coalition, il caso giudiziario che ha reso legali negli Stati Uniti immagini e video di abusi sessuali su minori virtuali o falsi. E veniamo alla notizia del 23 novembre, quando Alessandro Michele lascia Gucci che, pur forte dei quasi dieci miliardi di fatturato, starebbe perdendo terreno e dunque François Henri Pinault, presidente e amministratore delegato di Kering, proprietaria del marchio avrebbe chiesto un forte cambiamento di rotta al designer romano ma la risposta sarebbe stata negativa. Nessun limite alla sua creatività. Alessandro Michele, del resto, è quello che scelse una sala operatoria come scenografia per una collezione autunno/ inverno di Gucci: teste mozzate sottobraccio, messaggio sulla considerazione e accettazione di un’identità ibrida delle persone. A Michele gli adoratori attribuiscono soprattutto lo sdoganamento di una moda genderless, priva di connotazioni sessuate. Infatti all’interno di un’altra collezione fecero capolino alcuni pezzi ispirati alla storica rivista degli anni Settanta Fuori! Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano. La collezione Gucci Twinsburg fu un omaggio alle due mamme del direttore creativo. Messaggi politici ovunque sorretti dall’ideologia woke, a prescindere dalla sperimentazione di stile. Nessuna discriminazione, mai. Alla comunità finanziaria la prospettiva di una sua uscita di scena è apparsa subito come “un’otti ma notizia”. Gli analisti finanziari del lusso Luca Solca, Maria Meita e Renny Shao sostengono che “il brand Gucci stia soffrendo una sorta di stanchezza, in quanto Alessandro Michele ha fatto sempre la stessa cosa per sette anni. I consumatori che hanno acquistato molto presto, ovvero i cinesi, si sono stufati per primi. Prima va via Alessandro, meglio è”. I compratori cinesi avevano ridotto gli ordini a causa di un rallentamento delle vendite - di fronte a un trimestre stellare di altri marchi Kering, come Balenciaga, ma soprattutto Saint Laurent - tanto da chiedere uno sconto sugli articoli richiesti perché forse annoiati dall’estetica immaginifica e visionaria di Michele, come la collezione Exquisite, con quel quaderno- invito dove i look si potevano comporre a seconda delle combinazioni: “Non è mica un riferimento ai Cadavre Exquis, il gioco da tavola francese dei surrealisti?” si chiedono gli intellettuali woke stravolti dalla sua mente labirintica mentre si riparano col parasole non impermeabilizzato da mille euro di Adidas per Gucci. E’lo show a fare notizia, non la collezione, di cui lo show dovrebbe essere solo parte. E questo è un male per la moda, i cui direttori creativi a volte sono inconsapevoli pedine di quel sistema che pure vorrebbero distruggere. La sfilata di Gucci interamente carbon neutral, ad esempio, nulla aggiunge alle battaglie di Greta ma tanto fa a chi sta programmando una società cinesizzata basata sul controllo e sulle emissioni di carbonio. Quella libertà tanto invocata dal fashion disegna insomma una moda woke accomodante e non disturbante, che si carica di responsabilità sociali non sempre richieste dal pubblico. Ci piacerebbe che la moda non dovesse seguire solo i mercati finanziari, va bene, ma soprattutto che tornasse a parlare di qualità dei tessuti ed esaltazione dei corpi, evocando la reale ed individuale inclusività fisica e non solo psicologica. Anche di quelli che in questi tempi bui chiedono ad una griffe poesia, leggerezza e bellezza su corpi che hanno vissuto anni difficili. Non solo - che noia - stereotipi woke in nome del conformismo ideologico al mainstream sollecitato nel Colosseo digitale da élites non governative. Perché il fashion implora“ me too (anche io)” ma lo stile chiede “only me” (solo me).

Raffaella Vitulano


“Safe space”, una campana di vetro che protegga la sensibilità da ogni urto 

Il nodo centrale della ideologia woke è la sensibilità che, sia in tema di diritti, di identità o di qualsiasi aspetto, viene prima di tutto, e qualsiasi cosa la urti minimamente deve semplicemente essere proibita.Un think tank indipendente, lo Higher Education Policy Institute, ha realizzato, a distanza di sei anni, un’attenta ricerca tra gli studenti delle università britanniche sui temi cari al movimento woke. Analizziamone i risultati, confrontando quelli del 2016 con quelli del 2022. Partiamo da una delle “richieste simbolo”: quella di vivere in una campana di vetro, altrimenti definita come “safe space”, in cui nessuno possa in alcun modo urtare la nostra sensibilità: alla domanda “se si crede che chi si sente in qualche modo minacciato (anche in senso metaforico, da discorsi, o idee) debba sempre e comunque veder soddisfatte le proprie richieste”, il 79 % si è detto d’accordo (di cui il il46 % totalmente d’accordo),contro il 68 (e 35 del 2016), mentre appena il4% è contrario (era il10). il61% (quasi raddoppiato in sei anni) chiede che le università “in casi dubbi”, ossia quando palesemente non vi è alcun discorso discriminatorio, debbano comunque “garantire che tutti gli studenti si sentano protetti da ogni forma di discriminazione, piuttosto che la libertà di parola”, che viene invece difesa da appena il17 % (quasi dimezzato dal 2016).

Ra.Vi.

L’attacco al free speech. Quando per proteggere si limita la libertà di parola 

Ben il 35% (raddoppiato) degli studenti ritiene che il solo parlare di temi come razzismo e sessismo sia sbagliato, perché “li rende accettabili”: insomma, la nostra società è razzista e sessista; è ormai un dogma che deve essere accettato senza analisi né dibattito. Se nel 2016 un terzo degli studenti si dichiarava deciso a impedire fisicamente l’accesso al dibattito nei campus a “chiunque fosse portatore di idee offensive”, la percentuale è oggi salita al 50%. Si tratta di un fenomeno apertamente e decisamente schierato a sinistra. Ma ci si spinge sempre più avanti, e le richieste si fanno sempre più gravi, liberticide e dal sapore totalitario: se nel 2016 solo il 14% degli intervistati voleva fisicamente impedire l’accesso alle strutture dei campus a chiunque potesse “esprimere idee offensive” per alcuni gruppi di studenti, adesso si è arrivati addirittura al 40 %. Il 54% vorrebbe poi eliminare dalle biblioteche libri i cui contenuti possano in qualche modo urtare la sensibilità di qualcuno. Il rischio concreto è di creare una cultura del vittimismo di professione: in tal senso, il woke altro non è che il braccio armato della cancel culture, e i suoi obiettivi sono quelli di amputare il dibattito nella nostra cultura e nella nostra storia.

Ra.Vi.

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