Vivere lungo “i fiumi morti”, avvelenati dal blu dipinto di blu. E anche di nero

 

Il traghettatore del Bangladesh Kalu Molla ha iniziato a lavorare sul fiume Buriganga prima che il mosaico di baraccopoli sulle sue rive lasciasse il posto alle fabbriche di abbigliamento e prima che le sue acque diventassero nere come la pece. L’inizio di un bellissimo reportage della Agence France Presse (Afp) sui “fiumi morti” a causa del fast fashion stupisce per la sua crudezza. Si parla di ambiente, ma soprattutto di persone che quelle acque le usano per vivere e per lavorare, e che non possono smettere di farlo perché non hanno alternative. Il costo del boom economico del Bangladesh trainato dall’abbigliamento è altissimo. Anche lavare i panni lungo le rive del fiume Buriganga, alla periferia di Dhaka è pericolosissimo. Molla, 52 anni, soffre costantemente di tosse, allergie ed eruzioni cutanee, e i medici gli hanno detto che la colpa è del fango dall’odore disgustoso che ha spazzato via anche la vita marina in uno dei principali corsi d’acqua di Dhaka. “I medici mi hanno detto di lasciare questo lavoro e di lasciare il fiume. Ma come è possibile? Traghettare le persone è il mio pane quotidiano”. Nel mezzo secolo trascorso da quando una devastante guerra d’indipendenza ha costretto la sua popolazione a morire di fame, il Bangladesh è emerso come una storia di successo economico spesso inaspettata. Il paese dell’Asia meridionale, con 169 milioni di abitanti, ha superato la vicina India in termini di reddito pro capite e presto uscirà dalla lista delle Nazioni Unite dei paesi meno sviluppati del mondo. Alla base di anni di crescita galoppante c’è il boom del commercio di abbigliamento, al servizio delle potenze globali del fast fashion, che impiega milioni di donne e rappresenta circa l’80% delle esportazioni annuali del paese da 50 miliardi di euro. Ma gli ambientalisti sostengono che la crescita è avvenuta a un costo incalcolabile, con una miscela tossica di coloranti, acidi coloranti e altre sostanze chimiche pericolose che si sono fatte strada nell’ac qua, o meglio nei fanghi tossici. Campioni di acqua del fiume hanno rilevato livelli di cromo e cadmio oltre sei volte i massimi raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità. Entrambi gli elementi vengono utilizzati nella concia delle pelli e un’esposizio ne eccessiva a entrambi è estremamente pericolosa per la salute umana: il cromo è cancerogeno e l’esposizione cronica al cadmio provoca danni ai polmoni, malattie renali e nascite premature. Anche l’ammoniaca, il fenolo e altri sottoprodotti della tintura dei tessuti hanno contribuito a privare il fiume dell’ossigeno necessario per sostenere la vita marina. A Shyampur, uno dei numerosi distretti industriali intorno a Dhaka, la gente del posto ha detto all’Afp che almeno 300 fabbriche locali scaricano acque reflue non trattate nel fiume Buriganga. I residenti affermano di aver smesso di lamentarsi dell’odore putrido dell'acqua, sapendo che le imprese colpevoli sono facilmente in grado di sottrarsi alle responsabilità. “Le fabbriche corrompono le autorità per comprare il silenzio dei regolatori” spiega chi vive nella zona. “Se qualcuno volesse sollevare la questione alle fabbriche, verrebbe picchiato. Sono persone con legami potenti”. Il fast fashion non si limita a intasare le nostre discariche e ad aumentare i rifiuti tessili: le fabbriche dove si producono vestiti a buon mercato stanno uccidendo alcuni dei fiumi più importanti del mondo. Anche il documentario “River Blue” evidenzia la portata allarmante del problema. I bambini scalzi vagano in giro spruzzando sostanze chimiche tossiche tra le dita dei piedi. Fuori, baracche di lamiera ondulata arrancano lungo desolate sponde fangose fino a un fiume annerito che non scorre più, vorticando, denso e torbido, l’acqua morta. Questa non è la conseguenza di un disastro nucleare o la scena iniziale di un film di fantascienza: questo è il lato oscuro dell’indu stria del fast fashion in cui i vestiti economici stanno uccidendo il nostro pianeta. Il costo sociale della plastica dal 2019, del resto, supera il pil anche in India. Ma la posizione cruciale del commercio tessile nell’economia ha creato un nesso tra gli imprenditori e l’esta blishment politico del paese. In alcuni casi, i politici stessi sono diventati potenti attori del settore. La Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (Bgmea), che rappresenta gli interessi di circa 3.500 fabbriche di punta, difende il suo primato sottolineando le certificazioni ambientali rilasciate ai suoi membri. Ma nelle fabbriche più piccole dei subappaltatori che operano con margini esigui del settore, gli operai continuano a morire e ad ammalarsi. La maggior parte delle fabbriche di fascia alta che servono i principali marchi statunitensi ed europei spesso non accendono i macchinari di trattamento per risparmiare sui costi. Gli industriali sono avidi ma l’applicazio ne delle sanzioni esistenti è inadeguata per affrontare la portata del problema. Occorre elaborare nuove leggi per affrontare questa situazione di emergenza. Anche lo straordinario reportage di Progetto Happiness (https://www.youtube. com/ watch? v= LWvOlZ4hPU0) mostra gli stessi problemi tra lavoratori tessili la cui retribuzione media in un mese è compresa tra 25 e 75 dollari al mese. Molti lavoratori sono costretti a fare gli straordinari per 18 ore al giorno senza alcuna retribuzione o compenso aggiuntivo. Sono ben 35 milioni di persone che in Bangladesh vivono al di sotto della soglia di povertà. La maggior parte dei cittadini è disposta ad accettare qualsiasi lavoro che aiuti a sostenere se stessi e le proprie famiglie, non importa quanto esigui siano i salari. Molti possono permettersi solo un pasto al giorno e vivono la loro vita in un grave stato di fame e malnutrizione. Nelle fabbriche di abbigliamento del Bangladesh sono state pubblicate prove video che mostrano quanto siano pericolose le condizioni di lavoro per i lavoratori di queste fabbriche. Nonostante il ricordo dell’incendio del Rana Plaza che uccise centinaia di lavoratori, le uscite di emergenza sono ancora bloccate per obbligare i dipendenti al lavoro ed impedire loro di uscire. Le attrezzature di sicurezza come estintori e coperte antincendio sono scarse, lasciando i lavoratori senza protezione in caso di incendio. Rivenditori come H& M e Primark hanno firmato l’Accordo sulla sicurezza antincendio e degli edifici del 2013 e hanno iniziato a implementare nuove misure di sicurezza nei loro spazi di lavoro in tutto il Bangladesh. Qualche anno fa Greenpeace ha invitato molti marchi di moda a cambiare il loro modo di agire, estremamente inquinante. Alcuni lo hanno fatto, ma molti utilizzano ancora fabbriche esternalizzate che possono operare in modo indipendente. Pensiamo a Dior salita ai disonori della cronaca in questi giorni. I grandi marchi avrebbero l’opportunità di non nascondersi dietro i subappaltatori ma di fare la loro parte contribuendo a migliorare e far rispettare le leggi sul lavoro e sull’ambien te. Fiumi neri come la pece o blu scuro come jeans trattati da acidi, devono assolutamente tornare ad essere vivibili dalle popolazioni locali. Marithé Francois Girbaud, uno dei designer responsabili del look stonewash, ammette: “Ab biamo commesso un errore, siamo stati responsabili. Dal 1972 al 1989 eravamo alla ricerca di tecniche sempre più corrosive per invecchiare e cambiare i jeans”.

Uno dei pochi che ammette le proprie responsabilità. Anche nei reportage che Conquiste realizzò nelle Marche, veniva spiegato quanto il trattamento industriale dei jeans sia pericoloso. Il denim economico è una parte importante di questo problema ed è al centro del documentario River Blue. Il denim invecchiato, afferma Orsola de Castro, co-fondatrice della Fashion Revolution Week, “è la più grande follia della moda”. Prima degli anni ’90 e dell’Ac cordo di libero scambio nordamericano (Nafta), il mercato statunitense acquistava principalmente jeans prodotti negli Stati Uniti. El Paso, in Texas, ne produceva due milioni di paia a settimana. Ma politiche ambientali stringenti hanno spostato il mercato verso la Cina e l’Estremo Oriente. Xiantang in Cina ora rifornisce di jeans un terzo del mondo, ovvero 300 milioni di paia all’anno. Xiantang in Cina ospita il fiume Li: lungi dall’essere una fonte di vita, è una zona morta. Inquinato dall’industria dell'abbigliamento che utilizza piombo e mercurio nella tintura dei jeans, il deflusso viene riversato nel fiume senza pensarci troppo. Il Li, conosciuto come il Fiume delle Perle, è ormai una palude tossica. Alcune parti del suo corso sono diventate blu e Greenpeace lo ha definito “uno dei corsi d’acqua più inquinati al mondo”. I pescatori non possono più pescare, il fiume non può sostenere alcuna vita, quindi le persone hanno bisogno di comprare acqua in bottiglia e le tossine utilizzate nelle fabbriche di jeans vanno alla deriva a valle, portando con sé delizie cancerogene che possono modificare il sistema immunitario e ormonale e causare il cancro. Non sono solo gli abitanti cinesi della provincia a essere a rischio: lo siamo tutti, indossando capi con quelle tossine. A Giakarta il fiume Citarum è così tossico che ribolle, eppure serve nove milioni di persone e l’80% della città vi fa affidamento per l’acqua potabile. Solo 20 anni fa la gente nuotava, faceva il bagno e beveva nel fiume, un tempo conosciuto come Parahyangan, o il luogo dove risiedevano gli dei. Il Gange in India, il corso d’acqua iconico, spirituale e religioso, è un fiume morto. Le fogne a cielo aperto e le fabbriche riversano i rifiuti direttamente in un fiume sul quale fanno affidamento mezzo miliardo di persone e, sebbene i fiumi possano rigenerarsi (il Tamigi lo ha fatto negli ultimi 50 anni diventando la dimora di oltre 100 specie di pesci), si teme che il Gange non possa farlo. All’inizio di quest’an no, i media hanno diffuso immagini di cani blu che vagavano per Taloja, zona industriale di Mumbai in India. La loro pelliccia era stata tinta dai rifiuti tossici del fiume Kasadi. Il consumatore americano medio consuma quattro paia di jeans all’anno.È facile sottovalutare il ruolo importante svolto dall’acqua nel settore della moda, ma ogni anno il 3,2% di tutta l'acqua disponibile sulla terra viene utilizzata nell’industria tessile. Sono necessari 920 litri d'acqua per realizzare un paio di jeans.


Raffaella Vitulano


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