Chi comanda negli Stati Uniti? La risposta non è così scontata
Il giornalista statunitense Tucker Carlson ha dichiarato di sentirsi “troppo” umiliato dopo aver appreso che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato pubblicamente di controllare gli Stati Uniti e il loro presidente Donald Trump. L’impressione di molti, in effetti, è che in verità abbia assai poco potere decisionale: ciò non vale solo oggi per Trump, ma anche per tutti i presidenti che l’hanno preceduto. Neocon o meno che siano il presidente e il suo entourage, o i membri del Congresso - che rappresentano non chi li ha votati, ma chi li ha finanziati per poter essere eletti - sono tutti inevitabilmente esecutori di un progetto finanziario disegnato altrove. Il piano strategico che unisce la guerra russo- ucraina all’escalation di Israele rappresenta un piano di risposta economica dell’Occi dente ai danni dell’alternativa multipolare perorata da quelli che Manlio Dinucci chiama i Crink (Cina, Russia, Iran e Corea del Nord). Un piano che allerta il generale Michael T. Flynn, ex comandante dei servizi segreti militari Usa: “Se si dovesse stabilire che una potenza straniera ha assassinato Charlie Kirk (o è stata dietro il suo assassinio), ci saranno conseguenze gravissime. Ora l’Fbi sta riportando che questa è una possibilità”. A quali potenze si riferisce? Palesemente Davos vorrebbe la guerra civile per indebolire gli States. A guardare bene le alleanze mondiali, si intravede una linea, chiara, ben definita, tra coloro che di fatto vorrebbero trovare un’al ternativa al potere statunitense. Follow the money: l’asse di contrasto vede come partecipanti il Qatar, la Germania- Francia, di fatto anche l’I ran. Poi la Turchia, a giocare sul filo del rasoio come solido alleato tedesco. Davos ne resta l’ag gregatore, mentre Mosca ne resterà ai margini, basta non si tocchi la Siria. La Cina guarda invece attentamente all’Iran: l’ex impero celeste interverrebbe solo se le forniture petrolifere iraniane a Pechino fossero messe a rischio. La linea ex nazista franco-tedesca aggrega dunque la coalizione europea anti-americana, mentre Washington conta sul Patto di Camp David rinnovato ed esteso (che è 5Eyes - Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati - più Israele ed Italia; aggiungendo nel Mediterraneo anche Egitto, Marocco, Libia ed Algeria; dunque Giappone e Corea del Sud nel Pacifico). E questo a livello di aree geografiche. Poi, all’interno degli Usa a comandare, come titolava già nel 2017 il Financial Times, ci sono i trenta big dell’industria, detti anche “gorilla”, che detengono tutti insieme oltre 1.200 miliardi di dollari investiti in passività pubbliche e private. Il conto lo ha fatto il Financial Times anni fa, facendo anche qualche nome: tra i gorilla ci sono naturalmente Apple (che da sola ha riserve liquidabili per 150 miliardi) Amazon, Microsoft; ma anche Ford o General Electric. Le cifre vanno aggiornate ad oggi e diventano enormi. La domanda su chi comandi veramente negli Usa merita attenzione perché queste big tech non sono banche e nemmeno gestori o fondi pensione, che comprano debito permestiere, per dare un rendimento ai propri clienti o sottoscrittori, bensìsocietà private che operano sul mercato di beni e servizi; la cui salute, in ultima analisi, dipende dalla capacità di vendere i loro prodotti ai consumatori finali. In ogni caso il risultato finale è che queste 30 multinazionali americane si trovano ad avere nei loro bilanci un potere enorme, forse mai avuto prima nella storia del capitalismo. Il debito, infatti, è potere: prima di tutto il potere di influenzare le scelte del debitore.
Ma le dinamiche dell’economia globalizzata e delle multinazionali comportano effetti principali e collaterali transnazionali che è bene tenere in sempre maggiore considerazione, perchè mischiano le carte e i confini tra Washington e Davos. E, magari, fanno capire che Donald Trump non è certo l’unico problema negli equilibri mondiali. In parte c’è anche il “Deep State”, che non è solo una suggestione populista né tantomeno, necessariamente, una teoria del complotto. È il riflesso di un mutamento profondo della percezione del potere intriso nei legami di apparati militari, intelligence e criminalità organizzata, in un concetto liquido, applicato ai sistemi democratici occidentali, agli organismi internazionali, alle grandi aziende tecnologiche, alle burocrazie statali e persino alla stampa. Talmente fluido e liquido da far rilasciare al Presidente Donald Trump, il 29 agosto 2025, una incredibile intervista al Daily Caller in cui spiegava: “In passato Israele aveva il controllo totale sul Congresso degli Stati Uniti ed era impossibile per chi parlava ‘male’ dello Stato ebraico fare politica. Se torniamo indietro di 15 anni, le dirò che Israele aveva la lobby più potente che io abbia mai visto nel Congresso, più potente di qualsiasi altra istituzione, azienda, società o Stato. Israele era la più potente. Oggi non ha più una lobby così forte. È incredibile”, ha spiegato Trump. Ma allo stesso tempo, Trump ha definito Israele ‘fan tastico’, poiché anche lui ha goduto di un “buon sostegno” da parte sua. Il dominio israeliano su Washington dura comunque da troppo tempo e se gli Stati Uniti vogliono sopravvivere devono liberarsi da Israele: lo dice senza giri di parole Philip M. Giraldi, direttore esecutivo del Council for the National Interest, in un articolo pubbblicato l’11 settembre scorso. “Il piccolo Israele comanda e la superpotenza Stati Uniti obbedisce (...). Quando ero al governo, nelle stazioni e basi della Cia in Europa e in Medio Oriente, sentivo i politici statunitensi proclamare come Israele (il Mossad) condividesse meravigliose informazioni di intelligence che rendevano l’Ameri ca più sicura. La verità era ben diversa”. A comandare gli Stati Uniti non sarebbero stati per lui i presidenti, ma le più influenti famiglie della finanza askenazita di New York, tra le quali ci sono i soliti ubiqui Rockefeller, i Warburg e i Morgan, i veri signori della Fed, che si sono arrogati il potere di creare la moneta dal nulla nel lontano 1913, anno nel quale fu appunto creata la banca centrale americana. Se è vero che Trump e Netanyahu raramente si sono attaccati in pubblico, in privato gli scontri sarebbero stati tuttavia durissimi. C’è però chi frena su questa analisi, come Jonathan Cook su Unz: “La classe dei miliardari vuole farti credere che Israele controlli l’Occidente”. Ma la tesi secondo cui l’Occidente controlla Israele, e non il contrario, non esclude il fatto ovvio che Israele persegua i propri obiettivi specifici. “Più in generale, le élite occidentali - la classe dei miliardari - proteggono se stesse e le strutture di potere che hanno creato per mantenere la propria ricchezza, alimentando, principalmente attraverso i media istituzionali, profonde idee sbagliate sulla natura dei nostri sistemi politici. Vogliono che guardiamo nei posti sbagliati. L’assunto che Israele controlli l’Occidente è una doppia manna per la classe dei miliardari e un vero e proprio autosabotaggio per coloro che desiderano un vero cambiamento politico”.
Alcuni commentatori americani evidenziano che le azioni di Israele sono guidate in gran parte dal riconoscimento che il declino dell’egemonia statunitense ha offerto loro un’opportunità irripetibile e che questo, unito all’attuale composizione della coalizione di governo di Israele, rappresenta uno dei principali fattori trainanti delle azioni di Israele dal 2023. Ad ogni modo, questa è un’opportunità d’o ro per Israele, e Netanyahu lo sa. La leadership israeliana ha capito che la finestra di opportunità per perseguire il suo programma espansionistico è adesso, o forse mai più. Di fronte allo scontro tra gli interessi degli Stati Uniti e i propri, cosa possono fare gli stati del Golfo? Non molto. Come osserva Mearsheimer, non hanno quasi nessuna influenza. Hanno promosso un’immagine di stabilità politica ed economica e di neutralità, con l’obiettivo principale di attrarre oligarchi e le loro finanze, occidentali e non occidentali, ma tutti basati sull’ordine guidato dagli Stati Uniti. Questo segnala un cambiamento nell’ordine mondiale che Israele ha già compreso, ma che gli stati del Golfo stanno solo ora iniziando a comprendere. L’attacco israeliano al Qatar ha messo in luce la fragilità del sistema di sicurezza degli stati del Golfo, basato sulla protezione degli Stati Uniti in un momento di declino del suo potere. Ed è sempre una questione di soldi. Al suo secondo mandato, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha stabilito un patto non scritto con le monarchie del Golfo Persico, in base al quale avrebbero condiviso i frutti del ripristino della pace mondiale in cambio di centinaia di miliardi, se non migliaia di miliardi, di dollari investiti nell’economia americana. L’attuale audacia di Israele nel perseguire le sue ambizioni egemoniche dimostra che Tel Aviv ha capito qualcosa che gli stati del Golfo sembrano non aver capito: gli Stati Uniti sono un impero in declino e sovradimensionato, costretto a scegliere dove investire le proprie risorse. Ed ha scelto con chiarezza. E dunque, alla fine, è Israele a guidare gli Stati Uniti o sono gli Stati Uniti a usare Israele? La geopolitica non offre una risposta netta. Si potrebbe ascoltare il politologo John Mirsheimer parlare con il colonnello Wilkerson, perché hanno opinioni opposte. Ma alla fine gli interessi di entrambi i Paesi sono gli stessi e quindi non importa chi guida chi.
Raffaella Vitulano


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