Multinazionali in fuga dalla Russia. Il rovescio della medaglia

 di Raffaella Vitulano


Il Daily Mail lancia l’allarme. Gli hacker di Anonymous minacciano le multinazionali che ancora operano in Russia: “Ritiratevi o sarete le prossime” ad essere colpite, dopo gli attacchi informatici lanciati contro i siti web del Cremlino come rappresaglia per la guerra in Ucraina. A dimostrazione di come la guerra del Ventunesimo secolo si giochi ormai su più piani. L’annuncio è stato accompagnato da un’immagine che mostrava una varietà di loghi aziendali che andavano dalla società di servizi petroliferi Halliburton al servizio di cloud computing Citrix. Ambedue avevano già annunciato prima del tweet di Anonymous di aver sospeso le loro operazioni in Russia, unendosi a una lunga lista di multinazionali come McDonalds e Ikea che hanno smesso di offrire i loro servizi. Il gigante alimentare Nestlé, tuttavia, ha raddoppiato le sue operazioni russe, annunciando che continuerà a vendere prodotti nonostante sia uno degli obiettivi primari delle proteste contro la guerra, citata anche dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che ha esortato il colosso svizzero a cessare le sue attività in Russia. C’è chi ha espresso preoccupazione sul fatto che le decisioni delle multinazionali di sospendere le loro operazioni russe serviranno solo a punire milioni di russi innocenti i cui mezzi di sussistenza saranno colpiti. E’ la stessa Marina Ovsyannikova, l’ex giornalista televisiva che ha lanciato un’audace ed eroica protesta contro la guerra in diretta durante il telegiornale serale controllato dallo stato russo, ad avvertire dell’impatto delle misure adottate dai governi e dalle aziende occidentali contro i normali cittadini russi: “Ciò che l’Occidente sta imponendo a tutte le persone è probabilmente una decisione corretta, ma deve comunque capire che non sono gli oligarchi e la cerchia più stretta di Putin a soffrirne di più”, ha detto domenica alla Abc. Sono i francesi, soprattutto, a frenare: Renault, ad esempio, conta ben 40.000 dipendenti in Russia. Circa quattrocentocinquanta società hanno ridimensionato gli affari nel paese nella forte condanna del regime di Putin. L’elenco include giganti della tecnologia come Apple e Microsoft e major dell’energia come Bp e Shell. Le chiusure porteranno a decine di migliaia di perdite immediate di posti di lavoro per il personale russo locale. Qualcosa che in Birmania sostengono di aver già vissuto, come confermato da un interessante articolo del New Yorker che ricorda come guerre e conflitti non esistano solo in Ucraina. E che la fuga delle multinazionali ha sempre impatti economici. Nel 2016 Amit Khandelwal, presidente della divisione di economia della Columbia Business School, ha iniziato a lavorare a un esperimento per analizzare gli effetti delle nuove politiche di liberalizzazione economica in Myanmar e della revoca delle sanzioni in Myanmar. Il paese era stato governato da una brutale dittatura militare dal 1962 e decenni di governo autocratico combinato con sanzioni internazionali lo avevano lasciato quasi completamente isolato dal mondo esterno. Nel 2011 la giunta militare si è sciolta e il paese ha iniziato una transizione relativamente pacifica verso un governo democratico. Le società straniere hanno stabilito avamposti in Myanmar e hanno contribuito alla ripresa. Poi, all’improvviso, nel febbraio 2021, i militari hanno ripreso il controllo, arrestando e incarcerando Aung San Suu Kyi, il neoeletto leader del Paese, e riportando il Paese alla dittatura militare e all’isolamentoeconomico. “Le cose stavano andando alla grande”, racconta Khandelwal. Il Myanmar stava vivendo un boom economico, a dispetto della crisi economica del Tatmadaw (l’esercito professionista birmano) e delle aziende ad esso collegate, una situazione che stava portando a non poter più pagare i soldati. L’idea della Giunta militare fu dunque che, prendendo in mano il potere, si potesse risolvere questa situazione. È accaduto il contrario: il caos, l’odio contro il regime, le sanzioni internazionali e la pandemia hanno devastato il Paese. “Il giorno dopo il colpo di stato, si sentiva che qualcosa che avevamo immaginato, un futuro più luminoso, era semplicemente svanito. Era molto triste e non c’era niente che potessi fare”.

Nelle ultime settimane, mentre l’ondata di compagnie straniere che lasciano la Russia si è trasformata in un torrente, Khandelwal dice di essersi trovato a ricordare le sue telefonate ai lavoratori in Myanmar, disperati. “Quando pensi a un’impresa, pensi ai proprietari del capitale e ai proprietari del lavoro. Nessuno pensa mai ai lavoratori”. Le situazioni geopolitiche di Russia e Myanmar sono molto diverse, ma ci sono dei parallelismi. Jeffrey Sonnenfeld, preside della Yale School of Management si chiede se, dopo anni di lotta con gli effetti negativi della globalizzazione la delocalizzazione dei posti di lavoro, la crescente dipendenza dell'economia statunitense dalla produzione in paesi come la Cina - questa guerra finalmente spingerà a ripensare ai costi di un tale sistema economico. Il Myanmar insegna: essere cattivi non basta. Non basta affogare nel sangue qualunque protesta, non basta portare milioni di persone alla fame ed alla disperazione, non bastano sfruttamento, tortura, schiavitù. E nemmeno basta puntare sul contrabbando. Se una cosa non funziona, una dittatura non la cambia. Leila Abboud, corrispondente del Financial Times, riferisce sulle società di beni di consumo che rimarranno proprio perché, almeno per ora, in Russia hanno molte fabbriche e molti dipendenti: “In realtà non è così semplice dichiarare semplicemente che le chiuderai. Molte aziende hanno scelto di restare perché hanno un grande staff russo e si sentono in qualche modo responsabili per loro. È una cosa legittima di cui tener conto. Se hai 7.000 dipendenti in Russia, voglio dire, cosa fai? Li sbatti fuori dall’azienda da un giorno all'altro?”. Abboud sostiene che nel complesso la gente ha dimenticato che la Russia in realtà non è un’economia così grande: “Si tratta delle dimensioni dell’eco nomia italiana. Non possiede molte aziende e andarsene sarebbe catastrofico per migliaia di dipendenti. Non è così facile come pubblicare un tweet arrabbiato”.

Raffaella Vitulano




Il politologo Mearsheimer: “Il vero pericolo è la Cina” 

In un’intervista al New Yorker, il prof. John Mearsheimer, politologo e studioso delle relazioni internazionali tra i più autorevoli e conosciuti nel suo campo, svolge una argomentata e severa critica alla politica estera americana degli ultimi decenni e più in generale dell’occidente, accusati di una pericolosa mancanza di realismo e di una grave miopia nei confronti del vero concorrente degli Usa, che non è la Russia, ma la Cina: “Quando sei un paese come l’U craina e vivi accanto a una grande potenza come la Russia, devi prestare molta attenzione a ciò che pensano i russi. Corrono un grave rischio a renderli fondamentalmente ostili nei loro confronti. Gli Stati dell’emi sfero occidentale lo capiscono perfettamente quando si tratta degli Stati Uniti. ”. La Dottrina Monroe, in sostanza. “Non c'è motivo di temere che la Russia eserciti un’egemonia a livello regionale in Europa. La Russia non è una seria minaccia per gli Stati Uniti. A livello internazionale siamo di fronte a una seria minaccia. Siamo di fronte a un concorrente alla pari. E questo è la Cina”.

Ra.Vi.

“Le esitazioni delle aziende sono comprensibili” 

Alcuni le definiscono codarde. Altri coraggiose. Sulle multinazionali che scelgono il rischio di restare in Russia, si sta scrivendo molto in questi giorni sulle testate internazionali. In che modo i dirigenti di un’azienda di beni di consumo occidentale possono valutare i rischi di rimanere con quelli di andarsene? Leila Abboud, corrispondente da Parigi del Financial Times, conosce bene le vicende Renault, ma anche quelle della multinazionale svizzera Nestlé: ”Immagino che il consiglio di amministrazione di Nestlé debba esaminare la questione su base continuativa. Ma direi che le aziende di beni di consumo servono essenzialmente i consumatori e ciò che la gente pensa dei loro marchi è molto importante. Quindi può sembrare alquanto sconcertante che scelgano di rimanere in Russia valutando il potenziale danno ai loro marchi da parte dei consumatori indignati di altre parti del mondo. Ma penso anche che dobbiamo essere un po' onesti su quello che sta succedendo: è piuttosto raro che gli affari vengano colpiti da uno shock e debbano improvvisamente decidere il da farsi. Quindi in una certa misura, qualche esitazione è comprensibile”.

Ra.Vi.




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