Whatever it cakes: le vestali dell’euro e la camicia di forza sui salari


A gettare i semi della propria distruzione è la stessa Unione europea. Così ci vedono oltreoceano. Così scrive Conor Gallagher su Naked Capitalism. In pratica, gli europei della classe operaia si trovano sempre più di fronte al declino del tenore di vita e si stanno rivoltando contro la Ue, mentre la guerra in Ucraina e la crisi energetica hanno esacerbato questa tendenza. Ma i governi nazionali e la Commissione europea non fanno che peggiorare le cose. Uno scioccante 66% della classe operaia europea ritiene che la qualità della propria vita stia peggiorando; solo il 38% del ceto medio-alto la pensa allo stesso modo. Quanto tempo può sopravvivere il progetto europeo con una tale divisione? Gallagher non fa mistero a citare un paese su tutti in cui questo processo di declino è già in atto da decenni: l’Italia. Lo spunto gli è offerto da un recente studio di Dario Guarascio e Francesco Zezza, dell’Uni versità La Sapienza di Roma, e di Filippo Heimberger, del Wiener Institut für Internationale Wirtschaftsvergleiche (Wiiw) su “Il tallone d’Achille dell’Eurozona: rivalutare il lungo declino dell’Ita lia nel contesto dell’integrazione europea e della globalizzazione”, che analizza come il nostro paese sia il punto più vulnerabile della moneta comune, a causa di fattori interni strutturali già presenti nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, concorrenza a basso costo e frammentazione del lavoro, molte piccole imprese legate alla bassa innovazione e un profondo divario territoriale. Ma quel che addirittura sciocca l’analista Gallagher è vedere quante di quelle stesse politiche che hanno accelerato il declino del nostro paese vengano ora promosse in tutta la Ue. “Suppongo che non dovrebbe sorprendere dal momento che non c’è mai stata alcuna ammissione che la linea austera seguita da Bruxelles e dalle élites italiane abbia fallito. Invece chiedono solo di più. Più privatizzazioni. Altri tagli ai salari reali. Maggiore flessibilità del lavoro. Più austerità. Questo era l’obiettivo fin dall’ini zio: l’idea di chi accoglieva e promuoveva vincoli esterni più stringenti era che una riduzione della discrezionalità politica del Paese avrebbe facilitato la modernizzazione economica, interrompendo il trend negativo della crescita della produttività; avrebbe disciplinato i sindacati per la necessità di mantenere la competitività esterna mantenendo bassa la crescita dei salari, non essendo più disponibile l’opzione della svalutazione della moneta; e avrebbe frenato la spesa pubblica, rendendo così l’Italia più attraente per gli investitori finanziari. Tutte queste politiche sono state tuttavia disastrose per l’Italia, unico Paese del blocco in cui i salari sono diminuiti dal 1990. Bruxelles, piuttosto che vedere tale declino come un fallimento delle sue politiche nella terza economia del blocco, sembra volerlo emulare in tutto il resto dell’Ue”. E qui l’analista si fa serissimo con una domanda inquietante: quanto ancora può sopravvivere il progetto europeo? Il freno salariale è stataa lungo la strategia in Italia. L’export è diventato più difficile. La pressione al ribasso sulla crescita dei salari reali dovuta all'intensificarsi delle strategie di competitività di costo ha frenato i consumi delle famiglie. Gli investimenti sono diminuiti con il deterioramento delle prospettive economiche e con le privatizzazioni, che hanno ha promosso un calo del numero di grandi imprese in settori cruciali dagli anni '90 in poi. I vincoli sulla politica fiscale, infine, hanno portato a un calo del contributo alla crescita della spesa pubblica, poiché l’Italia è stata costretta a realizzare avanzi fiscali primari per soddisfare le regole fiscali europee e placare gli investitori. La Ue, in particolare la Germania, stanno affrontando un simile problema di competitività delle esportazioni. La risposta, simile a quella italiana, è la guerra condotta sul mercato del lavoro. L’unica componente rimasta del modello economico di Berlino è il contenimento dei salari. E quel che stupisce oltreoceano è che non c’è alcun piano per risolvere questo problema. Austerità, solo austerità. “Fare la guerra ai lavoratori con l’obiettivo dichiarato di controllare l’inflazione è simile a quanto accaduto in Italia negli anni ’90.

Sebbene gli sforzi di repressione salariale di Roma abbiano contribuito a domare l’inflazione, si sono rivelati controproducenti in termini di domanda aggregata, produttività e, in definitiva, crescita”. E il risultato è l’aumento della povertà. Come mostra Philipp Heimberger, gli “sforzi di riforma” dell’Italia sono stati significativi rispetto ad altre economie avanzate. Ma la presidente della Commissione von der Leyen e quella della Bce Lagarde - le due vestali dell’euro che con la presidente dell’Europarlamento Metsola costituiscono il girl power comunitario - stanno spingendo per ampliare questa cura da cavallo a tutta l’Unione, nonostante i sondaggi sui cittadini dell’Ue mostrino che quasi l’80% è favorevole a politiche sociali più forti e una maggiore spesa sociale. Un mesetto fa Lagarde tagliava leggera la torta su cui spicca un gigantesco numero 25, gli anni della Bce, concedendosi un vezzoso tweet col gioco di parole “Whatever it cakes!”. Quella Lagarde, voluta da Macron alla guida della Bce, scelta per portare avanti una politica di continuità rispetto al suo predecessore Mario Draghi. Von der Leyen, messa a capo della Commissione Europea da Angela Merkel, avrebbe dal canto suo dovuto incarnare la faccia inflessibile e rigorista della Germania. Eppure questi ruoli negli ultimi anni sembrano essersi fusi in una camicia di forza ferrea fatta di austerità e rigore. “Il nostro lavoro non è finito” annuncia madame Lagarde confermando che i rialzi dei tassi di interesse Bce proseguiranno anche a luglio. Bel lavoro, che comporterà livelli di debito più elevati, meno posti di lavoro, salari più bassi, meno servizi pubblici e maggiore povertà in tutto il blocco. “La classe operaia in tutta la Ue sarà ovviamente la più colpita, e ci si chiede quanto ancora possano sopportare l’avidità dell’ élite europea prima che le crepe nelle fondamenta Ue inizino a sgretolarsi. Le politiche di austerità neoliberali di Bruxelles continuano ad aumentare il divario tra ricchi e poveri” conclude Gallagher. Ogni punto di aumento dei tassi di interesse della Bce favorisce la remunerazione degli assets dei fondi di investimento internazionali, delle banche d’affari, dei rich kids del capitalismo mondialista. Ricordiamo che la Banca centrale europea è una banca privata che persegue gli interessi dei suoi azionisti di peso, rappresentati nel consiglio di ammirazione della banca stessa. Detentori di quote di capitale della Bce e dunque controllori della moneta sono le Banche Centrali dei rispettivi paesi europei, le cui quote di capitale appartengono a istituti di credito privati, fondi d’investimento, compagnie di assicurazioni e fondazioni: soggetti di capitale finanziario che il default negativo provocato dall’aumento dei tassi sull’economia reale poco sfiora.

La idea di “avidità”, secondo cui i profitti stanno giocando un ruolo significativo nell’inflazione, è stata trattata come controversa tra gli economisti. Alcuni esperti l’hanno persino trattata come stravaganza. In modo schiacciante, le aziende non hanno accettato la riduzione dei loro rendimenti. Ma il fatto che l’Fmi abbia confermato che i profitti societari sono uno delle maggiori cause d’inflazione dovrebbe mettere a tacere le resistenze: “L’aumento dei profitti aziendali rappresenta quasi la metà dell’aumento dell’inflazione in Europa negli ultimi due anni, poiché le aziende hanno  aumentato i prezzi gonfiando i costi dell’energia importata. Ora che i lavoratori stanno spingendo per aumenti salariali in modo da recuperare potere d’acquisto, le aziende dovrebbero accettare una quota di profitto inferiore affinché l’inflazione raggiunga l’obiettivo del 2% della Banca centrale europea nel 2025, come previsto nel più recente World Economic Outlook. I salari hanno guidato solo una piccola parte dell’ inflazione in Europa.”In altre parole, la richiesta corretta per coloro che ora vogliono mantenere il potere d’acquisto controllando l’inflazione (che insieme sono un obiettivo del tutto ragionevole) è che i profitti vengano ora sacrificati per ripristinare tassi salariali adeguati.

Il professor George De Martino (Università di Denver) nel suo nuovo libro “The Tragic Science: How Economists Cause Harm (Even as They Aspire to Do Good)”critica l’economia come uno sforzo spesso distruttivo. gli economisti non sono solo inefficaci nel risolvere i problemi sociali; spesso finiscono per crearne di nuovi. Peggio ancora: poiché l’economia manca di criteri significativi per definire cosa sia il danno, gli economisti spesso non sanno come misurare (e risolvere) i problemi che creano. George è lui stesso un economista e la sua critica indica una via verso una versione dell’economia più socialmente impegnata, che prenda sul serio la nozione di danno. Più in generale, De Martino sostiene che l’economia non ha alcuna nozione di danno indotto dall’economista e lo sottolinea come un punto cieco enorme e opportunamente egoistico. De Martino sottolinea infine che gli economisti hanno influenza ma non potere. Ciò consente loro di scrollarsi di dosso i cattivi risultati sostenendo che la loro politica non è stata implementata correttamente. Ma alcuni danni sono incommensurabili, e non possono essere ridotte a un calcolo monetario.

Raffaella Vitulano


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