Gerusalemme, storie di solidarietà che abbattono l’odio e l’ideologia

 

All’angolo di Leib Yaffe Street a Gerusalemme, nel quartiere di Talpiot, due case si trovano una di fronte all’altra. In uno, Aner Shapiro è in lutto. Suo figlio di 23 anni era andato a ballare nel deserto e si è ritrovato a lanciare granate, finché una gli ha tolto la vita. Dall’altra parte della strada, Judah e Hadassah Troen, membri della sinagoga, piangono la perdita della sorella di Judah, ShaharTroen-Mathias, e di suo marito Shlomi Mathias, due musicisti di talento assassinati dagli uomini armati di Hamas che hanno invaso la loro casa nel Kibbutz Holit. Debbie si è lanciata sul figlio sedicenne Rotem per proteggerlo dagli spari. Lei e Shlomi sono stati uccisi; il figlio, ferito da un proiettile penetrato nel corpo della madre, è sopravvissuto nascondendosi sotto una coperta nella lavanderia. Tra quelle due case è difficile respirare. Ma la solidarietà è ancora viva. Ad Haifa e Giaffa, pattuglie congiunte ebraiche e arabe cercano di prevenire la violenza da entrambe le parti. Nel sud, i residenti beduini rischiano la vita per cercare le vittime del terrorismo di Hamas. Sleman Shlebe, un beduino residente nel nord del Negev, in breve tempo ha reclutato circa 600 volontari, per lo più provenienti da la tribù Azazmeh, ed ha creato squadre di emergenza per cercare gli israeliani scomparsi. “Avevamo sentito parlare di persone scomparse sia dalla comunità araba che da quella ebraica, e sapevamo che grazie alla nostra eccezionale familiarità con il sud avremmo potuto dare una mano”, racconta ai media. “Ci siamo divisi nelle macchine in modo che ci fossero persone responsabili di cose diverse: raccogliere informazioni, salvare e prestare i primi soccorsi”. Nè lui né il suo popolo hanno armi e terroristi armati di Hamas potrebbero ancora vagare nella zona. “È vero che alcuni di noi lavoravano nella sicurezza, ma chi avrebbe dato un’ar ma ai beduini?”. E poi, i tranelli: “Una delle telefonate proveniva da un arabo che diceva che gli avevano sparato. Ha chiesto che andassimo a salvarlo in un campo confinante con la Striscia di Gaza. Quando siamo arrivati lì, ci siamo resi conto che era un terrorista che stava cercando di ucciderci tutti. Per fortuna ne siamo usciti vivi. La nostra arma migliore è Dio”.

Dio, la nostra arma migliore

Il fatto che un apparato di salvataggio così vitale sia stato creato letteralmente da un giorno all’altro ha attirato l'attenzione delle forze di sicurezza presenti nella zona. Ad un certo punto dql consiglio regionalehanno inviato agenti di polizia e guardie per fornire una scorta armata alle squadre beduine. “Si sono resi conto che la nostra conoscenza era importante e l’abbiamo usata per aiutare a salvare arabi ed ebrei dal pericolo”, ha detto Shlebe, aggiungendo che insieme ad altre forze, i volontari beduini hanno cercato, difeso e aiutato a salvare centinaia di persone in dozzine di località nei giorni successivi. Shlebe vive a Bir Hadaj, un villaggio beduino agricolo ufficialmente riconosciuto dallo stato nel 2003. Ma la maggior parte dei volontari che si uniscono alle operazioni di ricerca e salvataggio vivono in villaggi non riconosciuti nel deserto, lungo la Highway 40. “Molti di noi sentono che lo Stato ci ha abbandonato, ma noi non lo abbiamo abbandonato”, sostiene Shlebe, esprimendo la speranza che i suoi 11 figli ricevano una buona istruzione e siano al sicuro. La squadra impressionante e coraggiosa di Shlebe è stata formata ad hoc nel bel mezzo della guerra. Domenica, una famiglia della città beduina di Shaqib al-Salam, ha chiamato e chiesto aiuto dopo che i terroristi si erano

infiltrati nella loro comunità. La squadra di emergenza locale ha allertato “i suoi collegamenti” nell’Idf ed è intervenuta il più rapidamente possibile, ha detto. Quando sono arrivati, i soldati erano nel bel mezzo di una sparatoria con quattro terroristi; sotto il fuoco, il beduino Abu Habak e il suo popolo sono riusciti a salvare la famiglia. Anche qui, nonostante il fatto che la squadra sia costantemente coinvolta in attività estremamente pericolose, non è loro consentito portare armi e quindi spesso operano in tandem con gli agenti della stazione di polizia di Segev Shalom. Questa attività congiunta, a volte in tempi di grave emergenza, ha creato rapporti amichevoli tra loro. Oltre alle scene strazianti a cui Abu Habak ha assistito questa settimana, ha perso due amici intimi proprio nelle forze di polizia. Uno era il sovrintendente capo Itzhak Bazuka-Shvili, comandante della stazione di polizia di Segev Shalom. L’altro era Shalom Tzaban, capitano della stazione dei vigili del fuoco di Kiryat Gat. Entrambi sono stati uccisi combattendo contro i militanti di Hamas a Sderot.

Tra moschea e sinagoga

Il desiderio di fare volontariato e di aiutare sembra piuttosto forte tra i beduini nel sud di Israele. Dopo che Arnold Nataev, corrispondente locale del quotidiano Maariv, ha pubblicato domenica un articolo dal titolo “Arruolateci: i residenti beduini del sud chiedono di unirsi ai combattimenti”, è stato inondato da dozzine di messaggi di beduini che dicevano che erano pronti a offrirsi volontari per qualsiasi missione all’indo mani dei sanguinosi eventi che si sono verificati nella zona. “Sono pronto a fare volontariato per le forze di difesa israeliane in questo momento difficile”, si legge in un messaggio di testo. “Sono pronto a farlo anche come combattente. Farei qualsiasi cosa per il mio Paese. Israele è nei nostri cuori”. Sabato sera è stato inviato un messaggio ai membri di una serie di gruppi WhatsApp di attivisti sulla creazione di una guardia civile congiunta arabo- ebraica a Tel Aviv-Jaffa. Il suo obiettivo: proteggere i residenti locali, indipendentemente dalla religione o dall’origine etnica, qualora scoppino scontri tra loro. Nel giro di poche ore, circa 1.000 persone si sono unite al nuovo gruppo WhatsApp della guardia. Quasi 500 si sono ritrovati ad ascoltare quella sera una videoconferenza: ebrei e arabi, tutti pronti. I membri del nuovo gruppo di pattuglia, che è disarmato, hanno il compito di cercare di mantenere le strade calme mentre la guerra evolve. Un modo in cui contribuire ad allentare le tensioni in tali circostanze è documentare gli incidenti tramite video ed esprimere solidarietà ai residenti locali. Le nuove guardie stanno pianificando di intervenire in caso di situazione potenzialmente esplosiva, come durante le preghiere in una moschea, in una chiesa o in una sinagoga. Rappresentanti dei quartieri arabi locali, del Consiglio islamico di Giaffa, della Lega per gli arabi di Giaffa, dell’Associazione della Chiesa ortodossa, di sceicchi e imam locali e di diversi attivisti ebrei e arabi sono tutti “devastati da ciò che sta accadendo e sono impegnati, da un lato, a prevenire la violenza, l’incitamento o le molestie da parte degli arabi nei confronti degli ebrei o degli ebrei nei confronti degli arabi”. Il gruppo arabo-ebraico di Giaffa potrebbe ispirarsi a una partnership simile tra le comunità di Carmel e Fureidis, a sud di Haifa. Arabi ed ebrei hanno aderito a un’iniziativa, chiamata Neighbours at Peace, “con la consapevolezza che non possiamo prevenire la violenza da soli, ma solo insieme”, secondo Boaz Peled, uno dei fondatori. Il gruppo organizza frequenti eventi, conferenze e gite nel tentativo di fomentare un dialogo onesto e aperto tra i locali. Il loro gruppo WhatsApp, che conta 300 membri attivi, costituisce anche un’eccellen te piattaforma per aiutare e proteggere i residenti. Il rifugio antiaereo pubblico nel quartiere Khalisa, nella parte bassa di Haifa, è buio e sporco. Un gruppo di circa 600 abitanti di Haifa, arabi ed ebrei, da quando sabato è scoppiata la guerra nel sud, hanno pulito insieme i rifugi di Haifa. Quasi tutti sono stati ripuliti in pochi giorni grazie agli arabi e agli ebrei, tutti abitanti di Haifa. Questa partnership è speranza. Non solo a Giaffa e Haifa arabi ed ebrei lavorano fianco a fianco, ma anche nella città araba di Taibeh, nella parte centrale del Paese. Il parlamentare della Knesset Ahmad Tibi - già consigliere politico del defunto presidente palestinese Yasser Arafat ha gestito una sorta di linea di assistenza di volontari per assistere i civili, sia ebrei che arabi. Eppure, c’è chi anche nella solidarietà cerca di gettare benzina sul fuoco, come un giornalista di Channel 12 che ha twittato che Tibi e il collega parlamentare Ayman Odeh non erano stati abbastanza veloci, a suo avviso, nel condannare i massacri perpetrati da Hamas. Dopo il tweet di Segal e un testo simile pubblicato da un altro giornalista, Tibi è stato inondato diminacce di morte. “Succede in ogni guerra, ci sono già abituato, ma questa volta le minacce sono più esplicite e urgenti. Sento che sono diventati più audaci grazie a questo governo. La necessità di proteggere il nostro pubblico è chiara: le persone cercano un capro espiatorio e noi siamo un bersaglio facile. Ma questo caso è così semplice e secco che ha un solo 'indirizzo' da incolpare: il governo kahanista di Smotrich, Ben-Gvir, Sukkot e Netanyahu. Solo una soluzione diplomatica, senza assedio né occupazione, porterà speranza e un futuro diverso”.


Raffaella Vitulano




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