La distonia tra le urla e i silenzi colpevoli


Un tempo arteria della fiorente regione meridionale, la Route 232 si è trasformata in una strada della morte. I reporter del Times of Israel guidano lungo l’autostrada del Negev utilizzata da Hamas durante la brutale invasione dei terroristi e scoprono un paesaggio infernale macchiato di sangue e fuoco. Lazar Berman racconta di un camion, con targa bianca e verde di Gaza, utilizzato dai terroristi di Hamas mentre attraversavano il confine quel maledetto sabato mattina. Un aspro racconto di guerra, per far comprendere davvero cosa sia. Senza fori di proiettile nel camion e senza cartucce o sangue a terra, non è chiaro cosa sia successo ai suoi occupanti. “In una scatola di metallo nel camion c’era una grande bombola di gas di metallo, che avrebbe potuto causare danni spaventosi se fosse stata fatta esplodere. Il dispositivo improvvisato per innescare l’esplosione tramite telefono giaceva a terra. Dall’attrezzatura portata con sé, i terroristi sembravano disposti a trascorrere giorni nascosti tra i cespugli. Erano dotati di apparecchi per la raccolta delle urine che permettevano loro di liberarsi senza dover uscire dai nascondigli. I loro zaini, pieni di cambi di vestiti e scarpe, erano aperti a terra”.

Quello che più colpisce il reporter è però altro: “La cosa più agghiacciante sul sedile posteriore era un sacchetto di plastica pieno di chiavi di auto e di case, trofei della processione del massacro compiuto in Israele”. Trofei, appunto. E l’odore della guerra: “In un campo lungo il recinto della base militare di Re'im, macchie scure e umide macchiano la terra marrone. Le mosche ronzano intorno al sangue violaceo che si asciuga. Due paia di stivali indicano che due aggressori hanno perso la vita qui mentre cercavano di infiltrarsi nella base”. La guerra sta tutta nelle parole di Berman: “Il corpo gonfio di un terrorista giaceva disteso ai miei piedi, con il braccio destro proteso verso il giubbotto da combattimento. Il suo volto era bruciato in modo irriconoscibile. A tre metri di distanza, era un paesaggio infernale. I resti di un altro terrorista erano in fiamme, il suo braccio sinistro flesso sporgeva dall’inferno come per sollevarsi. Il terreno al di là brillava di arancione, i rami scuri si stagliavano contro il fuoco come le braccia di uno scheletro. Uno scontro a fuoco”. E allora penso all’italo-israeliano che intervistammo nel giugno 2015. Allora era un ragazzo poco più che ventenne che aveva deciso di lasciare l’Italia per combattere nella Brigata Golani. Sua madre, ebrea, gli ha trasmesso la passione per quello che ora è diventato il suo paese. E io, otto anni dopo, me lo immagino lì a combattere contro Hamas, penso ai compagni di brigata di cui mi aveva parlato negli anni a venire, quando diventammo amici. Alcuni li ritrovo nell’elenco fotografico dei militari uccisi nell’operazione Spade di Ferro, pubblicato dall’Idf. Penso ai suoi racconti, quando mi scriveva assonnato che a volte con i suoi compagni marciavano la notte legati ad una corda per tenersi svegli durante i pattugliamenti. Si danno coraggio l’un l’altro ancora oggi, immagino. Mi raccontava da Tel Aviv di quanto la riserva fosseuna cosa importante e dolorosa, piena di impegni e doveri; di come lo chiamassero spesso in missione e lui dovesse lasciare il suo lavoro da Google e sparire settimane e mesi. Lui, ora riservista domiciliato a Berlino, sarà con gli altri sul fronte a combattere, richiamato dal Giappone dove era in ferie in un tour gastronomico per approfondire una sua grande passione, oltre quella dell’intelligenza artificiale applicata allo sport: l’arte culinaria. Da Osaka, Kyoto, Kobe, Nara, di rientro in fretta in Israele. Avremmo dovuto vederci al suo rientro, per confrontarci sulle sue esperienze nipponiche. Ma lo immagino ora lì, magari su quella Route 232, con suoi compagni, fratelli da sempre. Non ne ho più avuto notizie. Natal Oliff scrive nel suo blog israeliano che è in questi momenti drammatici che “qualunque sia il motivo, gli angeli migliori della nostra natura vengono scatenati dall’apparizione dei nostri peggiori demoni”. E’ nei momenti peggiori che riconosciamo un profondo apprezzamento per la vita. “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”scriveva Antonio Gramsci: eccolo, il nostro momento storico. Natan Oliff è un ingegnere informatico che vive a Gerusalemme ed è convinto che “non abbiamo altra scelta, credo, che credere in noi stessi. Avere fiducia che le nostre azioni siano in definitiva importanti, significative e influenti. Pregare affinché anche il più piccolo atto di gentilezza scateni una catena invisibile di causa ed effetto più potente di quanto potremmo immaginare. Affrontare ogni decisione con l’idea che, per parafrasare i Nostri Saggi, il destino del mondo è in bilico e la nostra decisione inclina la bilancia per tutta l’umanità”. Vero, una decisione sbagliata può condannare tutta l’umanità esponendola ad una guerra mondiale. La decisione sull’attacco di terra può essere risolutiva per il mondo intero. Penso al mio amico nella divisione Golani, sotto al peso dello zaino e delle armi nell’infini ta rete di tunnel chilometrici costruiti dagli jihadisti sotto la Striscia e sotto al confine libanese per infiltrarsi in Israele. Lì e altrove. Oggi molti di quei soldati israeliani si sentono lì e altrove. Funzionanti e rotti, nel dolore profondo e insensibile della vendetta misto al disprezzo per chi non ha saputo governare un paese difficile. E poi c’è quel dolore sordo, quelle fitte anche tra i segnali di speranza della convivenza coi palestinesi. Dobbiamo piangere amaramente per le vittime israeliane, ma dovremmo piangere anche per Gaza. Non solo fiumi di lacrime asciutte, come quelle mai riuscite a versare. Evaporate come quelle parole mai dette, che oggi vorresti urlare di fronte a quelle vite trasformate in cenere e fuliggini nere. Penso agli scontri casa per casa, al vuoto dopo la cancellazione di sé. Immagino lo sguardo del mio amico all’interno degli inferi della terra qualora incrociasse lo sguardo degli jihadisti. Non sarebbe quello il momento per decifrare il dilemma morale di quando agire con compassione e quando agire con giudizio. Parlerebbero le armi. Un razzo errante in vista dell’incontro Usa-Israele ha distrutto l’Al-Ahli Arabi Baptist Hospital, uccidendo centinaia di palestinesi innocenti. Ed è ormai scambio di accuse tra Hamas e Gerusalemme. Israele è in preda non alla paura, ma a una profonda tristezza, mista a rabbia. Il disordine della leadership nazionale è controbilanciato dalla rapida mobilitazione della società. La riflessione di Moshe Silver - scrittore, studente e insegnante di Torah - è tutto: “Le persone ritornano in massa dall’estero, correndo per raggiungere i loro compagni al fronte. E stanno morendo, e ogni morte israeliana rafforza la determinazione di Israele per la vittoria, ma anche il desiderio di vendetta”nell’ormai dissolvimento di quell’architettura geopolitica globale derivante dagli accordi dopo la seconda guerra mondiale. Nir Avishai Cohen è maggiore riservista delle forze di difesa e autore del libro“Love Israel, Support Palestine”. Il militare israeliano è residente ad Austin,Texas ed è tornato a indossare la divisa per assolvere il suo dovere di militare. Cohen scrive sul New York Times: “Vorrei dire una cosa chiaramente, prima di andare in battaglia: non esiste qualcosa che sia ‘inevitabile’. Questa guerra avrebbe potuto essere evitata e nessuno ha fatto abbastanza per impedirla. Da 56 anni Israele sottopone i palestinesi ad un governo militare oppressivo. La società israeliana deve porsi domande molto importanti su dove e perché è stato versato il sangue dei suoi figli e delle sue figlie. Una minoranza religiosa messianica ci ha trascinato in una palude fangosa e noi la seguiamo come se fosse il Pifferaio di Hamelin. Non possiamo permettere che il massacro di israeliani innocenti si traduca nel massacro di palestinesi innocenti. Occorre concentrarsi sulla distruzione dell’esercito militante di Hamas”. “Non sono sicuro che ne uscirò vivo, ma so che un minuto dopo la fine della guerra, sia gli israeliani che i palestinesi dovranno fare i conti con i leader che li hanno portati a questo momento. Dobbiamo svegliarci e non lasciare che siano gli estremisti guidati dal fanatismo religioso a governare”.Dalle colonne del quotidiano di sinistra Haaretz, l’analista Zvi Bar ci va pesante: “Per ora, solo il primo ministro rimane in uno splendido isolamento nell’abisso del non assumersi la responsabilità (...) perché il Teflon che avvolge il suo corpo e la sua anima impedisce a qualsiasi cosa di attaccarsi. Nessuna responsabilità, nessuna colpa e niente scuse”. E ancora: “Chiedere a Netanyahu di assumersi la responsabilità equivale a riconoscere che questo Stato ha un premier funzionante. Questo è l’uomo che, invece di annientare l’infrastruttura del terrorismo, ha attivato tutti i meccanismi di governo per schiacciare l’infrastrut tura della democrazia, della magistratura, dei media, dell’economia”nonostante centinaia di migliaia di manifestanti negli ultimi mesi. Gli fa eco l’ex premier israeliano Ehud Olmert: “Se il 7 ottobre c’è stato un eccezionale fallimento dell’intelligence la principale spiegazione è Netanyahu stesso, che ha preferito squalificare l’unico candidato reale per il negoziato, ossia l’Autorità palestinese e, rimuovendo Abu Mazen dalla scena, ha promosso Hamas”con sentendo l’enorme afflusso di quantità di denaro del Qatar a Gaza.

Raffaella Vitulano


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