La crisi ormai cronica della democrazia americana
Il saggio di Benjamin Studebaker “La crisi cronica della democrazia americana” fornisce un’analisi compatta e convincente di come gli Stati Uniti siano finiti in quella che sembra sicuramente una spirale mortale della legittimità, con persone al potere e vicine al potere che si sono isolate con successo dalle conseguenze delle loro politiche, in particolare della politica economica, dai cittadini comuni. Le grida di difesa della democrazia raggiungono livelli da teatro dell’assurdo quando queste stesse sedicenti guardie denunciano i populisti ed altri con legittime rimostranze. Scritto l’anno scorso, il saggio resta attualissimo e ancor meglio si adatta alle imminenti elezioni, soprattutto dopo l’impieto so confrontro tra Biden e Trump. “Che fine ha fatto il 25° emendamento che autorizza il vicepresidente e la maggioranza del governo a dichiarare il presidente incompetente? Cosa sta succedendo alla Casa Bianca di Biden?” si chiede il pluripremiato giornalista d’inchiesta Seymour Hersch? Il sistema economico sta lentamente sottoponendo gli americani di quasi tutti i livelli di reddito e di provenienza a enormi quantità di stress. Gli Stati Uniti non hanno la capacità statale necessaria per alleviarequesto stress, e i politici incoraggiano gli elettori a incolparsi a vicenda. La crisi non può essere risolta, l’economia non può essere rimessa in sesto e la democrazia non può essere salvata. Ma la democrazia americana non può essere uccisa dato che gli americani non riescono a immaginare alcun sistema politico alternativo convincente. La disconnessione tra i bisogni legittimi delle persone e la pratica dello Stato si è differenziata in modo tale che i punti finali non si trovano più sulla stessa mappa. La risposta politica ai problemi sociali ed economici non è la loro soluzione ma l’abbassa mento delle aspettative. La crisi è servita anche in un’altra opera di riferimento forse troppo spesso ignorata negli ultimi tempi: “La Grande Trasformazione” di Karl Polanyi, che spiega come il progresso del capitalismo stia divorando la società. Le forze che si oppongono a questa distruzione riescono a rallentare e ostacolare il processo in modo sufficiente solo a consentire ai paesi e alle comunità di adattarsi. Nient’altro. Sembra che il progresso distruttivo del capitalismo stia accelerando poiché le forze che normalmente getterebbero sabbia negli ingranaggi sono state indebolite o cooptate. La “grande trasformazione” subìta dalle istituzioni liberali negli anni Trenta del secolo precedente è al tempo stesso per Polanyi la dimostrazione della falsità delle tesi dell’economia politica classica e neoclassica, con la loro apologia dell’homo oeconomicus e del mercato autoregolantesi. Vanessa Williams su Brookings scrive che gli Stati Uniti stanno sperimentando due principali forme di erosione democratica nelle loro istituzioni di governo: la manipolazione elettorale e il superamento dell’e secutivo. Dal 2010, le legislature statali hanno varato leggi intese a ridurre l’accesso degli elettori al voto, politicizzare l’amministra zione elettorale e precludere la competizione elettorale attraverso un gerrymandering estremo. Negli Stati Uniti, il potere esecutivo è cresciuto in modo significativo, minacciando l’indipendenza della pubblica amministrazione. Con un Congresso bloccato e iperpartitico, manca un controllo esecutivo imparziale e l’imparzialità giudiziaria è in questione. The Washington Post spiega che “in un Paese in cui la ricerca di un terreno comune è sempre più sfuggente, molti americani possono essere d’accordo su questo: credono che il sistema politico sia rotto e che non riesca a rappresentarli. Non hanno torto. Di fronte a problemi grandi e impegnativi - clima, immigrazione, disuguaglianza, armi, debito e deficit - il governo e i politici sembrano incapaci di raggiungere il consenso. Su ciascuna di queste questioni l’opinione pubblica è divisa, spesso amaramente. Ma su ciascuno di essi ci sono anche aree di accordo. Ciò che è rotto è la volontà di chi detiene il potere di vedere oltre le divisioni quanto basta per raggiungere un compromesso”. Tutto parte dalla globalizzazione e dal neoliberismo. Come le persone hanno sempre capito, la perdita di potere d’azione nell’economia politica significa una perdita quasi totale di controllo su ciò che conta. Studebaker contesta che quando si parla di problemi economici si viene accusati di legittimare le rimostranze dei populisti, di favorire la gente cattiva. Per evitarlo, le élite americane sono rimaste sempre più intrappolate in una discussione culturale insulare, troppo occupate a denunciare i deplorevoli per fare qualsiasi sforzo per comprendere adeguatamente il problema. Ciò fa sì che le élite sembrino fuori dal mondo, e in realtà lo sono, e questo non fa altro che alimentare i “risentimenti”, che piuttosto sono legittime lamentele, di chi viene criticato come populista. Se i politici hanno bisogno di voti ma non possono risolvere i problemi degli elettori, devono trovare un modo per ottenere voti senza risolvere i problemi. Lo fanno alimentando false speranze in un’alba che non arriva mai. In altre parole, i politici hanno imparato l’oscura arte di ottenere voti senza risolvere i problemi. La sinistra è descritta come una “indu stria della speranza”, mentre la destra si lamenta per l’abbando no dei “valori tradizionali”. Studebaker ricorda il primato del materialismo nel comprendere cosa è andato storto, insieme al lavoro di Bertell Ollman sull’alienazione come conseguenza della nostra moderna economia politica che ha portato a una finta democrazia. Nella formulazione di Studebaker, la crisi cronica americana (come quella europea) è una conseguenza del crollo della legittimità del sistema agli occhi di coloro che sono esclusi, lasciati indietro e ignorati. Quando il sistema politico non risolve il problema irrisolvibile, ma difende invece gli interessi degli oligarchi e delle multinazionali, i cittadini si sentono sempre più incapaci di identificarsi con le decisioni politiche. Questo è solo un altro modo per dire: “Non esiste alternativa” alla neoliberalizzazione di tutta la vita in cui tutto è una funzione o un prodotto del libero mercato. Tina era l’acroni mo preferito dalla Thatcher: There Is No Alternative. Tina è uno slogan politico secondo cui il capitalismo è l’unico sistema economico possibile. Possibile per chi o per cosa? Un fatalismo strisciante porta a una sorta di politica senza politica sotto forma di fede, famiglia, fandom e futurismo. I cittadini comuni nelle moderne democrazie occidentali non realizzano mai pienamente le capacità loro attribuite. Sono sempre soggetti di un sistema politico che non controllano e non possono controllare. Piuttosto che cittadini, sono subalterni governati dai consumi. Il risultato è l’entropia sociale. La crisi cronica della democrazia americana in qualche modo riecheggia Theodor Adorno e Max Horkeimer in Dialectic of Enlightenment, che mostravano che “una ragione ristretta e strumentale penetra in ogni parte della società, comprese il mondo accademico e le arti”. Walter Schiedel ha scritto che il cambiamento necessario richiederà “guerra, rivoluzione, collasso dello stato e pandemie”. Sembra che in questo momento ci troviamo nel bel mezzo di due di questi, ed entrambi potrebbero sfuggire di mano in qualsiasi momento. Il collasso dello Stato è improbabile nell’immediato futuro, così come lo è la rivoluzione. "C’è molto di sovietico in questo autunno americano. Su tutto, il senso dell’immortalità violata”. Comincia così l’editoria le del numero di Limes dedicato al Mal d’America. “Fino a ieri anche i più fieri critici dell’American way of life, vera ragione sociale dell’avventura a stelle e strisce, ne davano per scontata la permanenza. Non modello storico, dato di natura. Come sole, pioggia o vento (...) A distanza di una generazione dall’imprevisto collasso dell’U nione Sovietica, pare che molti nell’auto proclamato Impero del Bene temano di fare la fine dell’Impero del Male. Perché non credono più nella bontà del sistema, come i tardosovietici d’età gorbacioviana”. Il parallelo fra implosione sovietica e sua possibile replica sul suolo dell’avversa rio che l’aveva celebrata Vittoria è espresso sobriamente da Jackson Diianni, critico culturale in erba da Brookline, Massachusetts. Con sguardo freddo, Diianni va al punto: “L’America è come l’Unione Sovietica nel 1990? Ciò che colpisce della fase attuale è che la minaccia più seria all’or dine sociale americano non viene da un qualche modello alternativo sostenuto dai nostri avversari. Viene da dentro”. Il ridimensionamento della potenza degli Stati Uniti è il fenomeno strutturale dei nostri tempi, scrive Federico Petroni su Limes. Negli ultimi trent’anni l’America ha colpevolmente trascurato le fonti del proprio potere. “Ha espanso gli impegni militari senza pensare di doverli onorare. Ha sottovalutato gli avversari, spingendoli assieme invece di dividerli. Ha svuotato l’industria bellica fino a non poter più sostenere una guerra protratta contro un nemico alla pari. Ha ignorato l’ammodernamento nucleare, indebolendo la deterrenza. Ha costruito Forze armate per combattere le guerre sbagliate. Ha abusato della forza militare e finanziaria, così dilapidando il consenso interno e straniero verso il proprio predominio. Ha dimenticato il nesso tra la vitalità del fronte domestico e il margine di azione internazionale. Ha adottato un modello economico che ha distrutto la classe media e permesso l’a scesa della Cina. La cieca fede nel trittico tecnologia-capitalismo-democrazia ha generato atteggiamenti di negligenza o tracotanza (...). Tuttavia, il danno più grave e sorprendentemente meno indagato lo ha subìto il più importante dei fattori di potenza: la fiducia in sé stessa. L’America è in crisi perché non sa più spiegarsi se e come difendere l’impero”.
Raffaella Vitulano
- Ottieni link
- X
- Altre app
Commenti
Posta un commento