Un accordo per salvare il dollaro: la sfida di Trump alla finanza mondiale

 

Forbes si chiede se il presidente Donald Trump prenda sul serio ogni piano che annuncia all’im provviso ed aggiunge che uno nuovo che si aggiunga ai dazi e alle politiche commerciali è potenzialmente fonte di preoccupazioni finanziarie a livello globale. La rivista staunitense bisettimanale si riferisce al cosiddetto “Accordo Mar-a-Lago”, che comporterebbe diverse fasi. Innanzitutto, gli Stati Uniti cercherebbero di costringere alcuni creditori stranieri, che detengono grandi quantità di titoli del Tesoro a lungo termine, a scambiarli con speciali titoli del Tesoro a lunghissimo termine. Bloomberg riferisce che le sostituzioni sarebbero obbligazioni zero-coupon non negoziabili a 100 anni. Ciò significa che le obbligazioni non pagherebbero interessi. Invece, verrebbero vendute a uno sconto rispetto al loro valore nominale. Tenerle fino alla scadenza sarebbe l’unico modo per recuperare l’investi mento e il rendimento che ne consegue. Se uno dei paesi avesse bisogno di denaro, potrebbe prendere in prestito temporaneamente dalla Federal Reserve contro l’obbligazione. In teoria, questo piano potrebbe far scendere i pagamenti degli interessi sul debito federale, che l’anno scorso hanno superato per la prima volta 1 trilione di dollari all’anno. Alla fine, gli interessi arriverebbero a scadenza, ma in 100 anni, quando presumibilmente tutti i politici responsabili sarebbero morti da tempo. Jim Bianco, fondatore della società di ricerca e analisi Bianco Research, spiega a Bloomberg che un dollaro più debole finirebbe per rendere il debito più costoso perché gli investitori stranieri sarebbero preoccupati per la stabilità degli Stati Uniti e, di conseguenza, richiederebbero tassi di interesse più elevati, aumentando infine il costo del debito. Bianco ha anche affermato che, pur non pensando che ciò accadrà presto o forse mai, Trump potrebbe così sconvolgere completamente i mercati finanziari globali. Cercare di forzare altri paesi ad accettare un accordo del genere sarebbe una mossa pericolosa, che mostrerebbe debolezza e minerebbe la fiducia negli Usa, sostiene Forbes.Ciò potrebbe comportare una richiesta di tassi di interesse più elevati per compensare un rischio percepito maggiore. Un altro potenziale problema sarebbe quello di minare la posizione del dollaro Usa come principale valuta di riserva mondiale. Il passaggio a un dollaro più debole significherebbe che le importazioni costerebbero di più. Le aziende scaricherebbero almeno alcune, se non tutte, quelle spese sui clienti, facendo salire i prezzi e aumentando il rischio di una crescente inflazione. Di diverso avviso è il giornalista ed attivista francese Thierry Meyssan, che sul suo blog Rete Voltaire scrive che con queste mosse Donald Trump starebbe gestendo in realtà il possibile crollo dell’im pero americano: “È possibile che gli incontri diplomatici mascherino un obiettivo diverso: prevenire una grave crisi economica in Occidente. Quest’ipote si spiegherebbe perché Washington abbia bisogno di terrorizzare gli alleati: per costringerli a farsi carico dei suoi debiti. È difficile interpretare i recenti avvenimenti, perché ogni protagonista dissimula le proprie intenzioni. La de-dollarizzazione, ovvero l’impiego del dollaro solo a livello nazionale e non più nel commercio internazionale, è questione irrisolta e ricorrente della finanza”. Alle misure coercitive unilaterali che gli Stati Uniti hanno imposto agli alleati per colpire l’Iran e successivamente la Russia, Mosca ha reagito creando l’Spsf, sistema di trasmissione dei messaggi finanziari; Pechino ha adottato il Cips, sistema di pagamento interbancario; l’U nione Europea lo Strumento europeo di sostegno al commercio (Instex). Risultato: diminuzione dell’uso del dollaro nel commercio internazionale di circa il 25%”. Tuttavia lo scorso 20 febbraio,in una videoconferenza ripresa da Bloomberg, l’ana lista Jim Bianco ha rilanciato i timori. Secondo Bianco, l’am ministrazione Trump sta seguendo un piano, il cosiddetto Accordo di Mar-a-Lago: ristrutturare radicalmente il peso del debito statunitense riorganizzando il commercio mondiale attraverso i dazi, svalutando il dollaro e riducendo il costo dei prestiti; il tutto allo scopo di porre l’industria statunitense su un piano di parità con il resto del mondo. L’idea sottesa all’Accordo di Mar-a-Lago rinvia a un articolo di Stephen Miran del Manhattan Institute, spiega Meyssan nel suo articolo, tratteggiando l’idea che nell’ambientazione kitsch della residenza di Mar-a-Lago Donald Trump cerchi di convincere i banchieri centrali e i ministri delle Finanze alleati a farsi carico dei debiti degli Stati Uniti. Lo stesso Trump, il 22 gennaio al Forum economico mondiale di Davos, aveva pronunciato un discorso che è sembrato andare nella stessa direzione. La denominazione Accordo di Mar-a-Lago vuole essere un riferimento all’Accordo del Plaza del 1985, quando gli Stati Uniti indebolirono il dollaro per rilanciare le esportazioni. I meccanismi finanziari furono però mal gestiti: l’economia statunitense ripartì provocando una gravissima recessione in Giappone. Il 21 e 22 gennaio scorso Trump ha riunito i banchieri centrali e i ministri delle Finanze del G7 nella sua residenza di Mar-a-Lago. Li avrebbe accolti intimando: “Nessu no uscirà da questa stanza fino a quando non avremo trovato un accordo sul dollaro”. Gli alleati avrebbero infine approvato l’Accordo. L’asse portante della ristrutturazione sarebbe proprio l’emissione da parte del Tesoro degli Stati Uniti di titoli di Stato a interessi zero (i cosiddetti “zero coupon”) con scadenza a un secolo (ossia che non potranno essere rimborsati prima di cento anni). Washington dovrebbe poi costringere gli alleati a convertire i loro titoli di credito in “zero coupon”. Ora Trump è più accorto: distrae l’opinione pubblica interna prospettando l’annessione dell’intero continente nord-americano, dalla Groenlandia al Canale di Panama, nel frattempo liquida la guerra in Ucraina nonché l’U nione Europea. Per il giornalista francese non dobbiamo credere affatto alle minacce di annessione di nuovi territori come il Canada, nonché alla favola che gli Stati Uniti si vogliano ritirare militarmente dall’Euro pa per scontrarsi con la Cina; dobbiamo invece ammettere che vogliono abbandonare militarmente gli alleati europei. Per riorganizzare l’Europa centrale vediamo che stanno abbandonando la Germania e puntando sulla Polonia, magari permettendo a Varsavia di annettere la Galizia orientale, attualmente ucraina. Dobbiamo anche prepararci all’abbando no da parte degli Stati Uniti degli alleati medio-orientali, eccezion fatta per Israele. Infatti: hanno ripreso a fornire armi a Tel Aviv e avviato trattative segrete con l’Iran attraverso Mosca; consentono all’Arabia Saudita e alla Turchia di spartirsi il mondo arabo. “Quindi la sfida tra Parigi e Londra per mettersi a capo della difesa europea non deve essere interpretata come un’opposizione alla pace in Ucraina”. Del resto, diciamola tutta, né le forze armate britanniche né quelle francesi potrebbero sostituirsi al sostegno militare di Washington all’Ucraina. “In gioco c’è il futuro ruolo delle due capitali nel continente. Il presidente francese Emmanuel Macron spera di riuscire a fare evolvere il proprio concetto di difesa, incentrato sulla forza d’urto francese; il primo ministro britannico Keir Starmer vuole invece volgere la situazione a proprio vantaggio. Macron è consapevole che l’Unione Europea con epicentro la Germania si sta sfaldando e che il presidente Trump le preferisce l’Iniziativa dei Tre Mari, con epicentro la Polonia. Potrebbe perciò ridestare il Triangolo di Weimar (Germania, Francia, Polonia) per garantirsi un margine di manovra. Mentre Starmer, partendo dalla stessa analisi e tenendo conto del ritrarsi della Nato, farà attenzione a mantenere la Germania il più lontano possibile dalla Russia, perseverando nella politica estera che il Regno Unito persegue da un secolo e mezzo”.

Raffaella Vitulano




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