Il flop di Eataly nei negozi spiegato da un ricercatore californiano


Tagliolini a quasi 200 euro al kg. e fusilli a 30 euro al kg. Così Investire Oggi in un articolo di Giuseppe Timpone commenta il flop di Eataly per Oscar Farinetti citando il video in rete di un famoso fotografo piemontese, Stefano Tiozzo, che era andato prima dello scoppio della guerra in Russia a monitorare i prezzi del negozio a Mosca, ceduto a terzi con l’uscita di Farinetti dal business in Russia. Sugli scaffali si potevano trovare confezioni di tagliolini al tartufo da 250 grammi per 2.699 rubli, pari a 48,40 euro al tasso di cambio attuale. Qualcosa come 192 euro al kg. ”Follia pura”. E 3 litri di olio extra-vergine di oliva si potevano comprare per 5.499 rubli, circa 100 euro. E ancora: fusilli da 500 grammi in promozione per 799 rubli, “sol tanto” 14,60 euro a pacco.“Sia mo sicuri che sia stata una buona promozione del Made in Italy o forse uno slow food così eccessivamente costoso non abbia dato l’idea all’estero di un marchio che vuole approfittare del buon nome del cibo italiano per spillare molti più soldi del dovuto ai clienti facoltosi? Non esattamente l’idea originaria di Farinetti, secondo quanto ci ha spiegato in tutti questi anni” è il commento del giornalista. Diversi sarebbero stati gli errori di Farinetti nella guida di Eataly, fatale sarebbe stata l’e sitazione sulla quotazione in borsa. Tuttavia, a spiegare meglio le ragioni di una crisi profonda interviene “Inventing Eataly, Inventing Italian Cuisine”, articolo di Sean Wyer su Vittles. Sean Wyer ha un dottorato di ricerca presso l'Università della California, Berkeley, e attualmente vive a Londra. Vittles invece è una rivista online pluripremiata con sede nel Regno Unito e in India, che pubblica articoli di cibo e cultura da tutto il mondo. “Abbiamo fatto Eataly; ora dobbiamo fare gli Eataliani” comincia l’autore citando quello che il fondatore di Eataly potrebbe non aver mai detto, ma sicuramente pensato mentre osservava la filiale cavernosa e vuota di Eataly a Liverpool Street. La filiale londinese di Eataly sembra “un intero quartiere di Broadgate, uno spazio di vendita al dettaglio così grande che di diritto dovrebbe essere situato appena fuori dalla North Circular Road“.

“La prima volta che ci sono andato ho dovuto meravigliarmi della sua portata ambiziosa,della sua arroganza. Mi chiedevo chi fosse il pubblico di destinazione. Sicuramente ci sono abbastanza negozi di prodotti italiani a Londra, mi sono detto, pensando a Borough Market in fondo alla strada, e a De Calabria con la sua selezione caotica ma sempre eccellente di pasta ai cereali e verdure sottaceto. Ho girovagato per i suoi corridoi, ho viaggiato sulla sua scala mobile circondata da citazioni di Wendell Berry (manco fossi al Planetario di Londra), ho comprato qualche confezione di gianduja e sono tornato a casa”. Il giorno dopo, Sadiq Khan ha aperto ufficialmente Eataly tagliando un enorme nastro di pappardelle fresche. “Sono tornato da Eataly racconta Wyer - e c’era già una coda solo per entrare, il che mi ha infastidito. Dopo 15 minuti guardando intorno alla sezione dei biscotti certamente impressionante, ho avuto la lenta consapevolezza che tutti intorno a me parlassero italiano.. Avevo pensato che l’unico target di riferimento sarebbero stati gli impiegati e le persone che prendevano il treno da e per Liverpool Street, ma quello era solo il mio snobismo. Forse quello che vogliono gli italiani non sono i piccoli produttori che si trovano nei mercati londinesi venduti da un artista comunista; forse quello che vogliono è Eataly” l’autore si chiede, interrogandosi poi su “quale visione dell’I talia fosse più veritiera: quella di De Calabria, fieramente regionale, su piccola scala, manoscritta, che evoca l’immagine di una città mercato sul mar Ionio; o Eataly, con la sua esposizione irreggimentata e indicizzata. Qualcuno potrebbe dire che Eataly è un successo perché sa che l’anima di una cucina nazionale non è proprio nei piccoli produttori, nei suoi migliori prodotti in assoluto e nei metodi più tradizionali, ma nel cibo in cui una persona potrebbe perdersi e cercare se fosse residente in un altro Paese”. Il signor Palomar - tratteggiato con sapienza da Italo Calvino di fronte alla ardua scelta in un banco di formaggi - sarebbe probabilmente svenuto se mai fosse entrato ad Eataly. “Sono stato sopraffatto dalla mia prima visita all'allora nuovissimo negozio di Roma nel 2012. Esplorare la cavernosa Eataly con la facciata in vetro significava esplorare un’altra città, che galleggiava appena sopra l’anti ca capitale. Eppure la metafora della città non è sufficiente per descrivere Eataly, che in effetti è più simile a uno stato sovrano. Il suo motto, dopotutto, è L'Italia è Eataly. You are what you Eataly. Non si può fare a meno - commenta desolato l’autore - di sentire che il gioco di parole è andato troppo oltre”. Al centro di Eataly c'è una serie di paradossi. “Eataly celebra la vita agricola, ma i suoi negozi urbani sembrano lontani chilometri da un idillio rurale. Difende i prodotti iperlocali, pur sposandosi, anche attraverso il nome, all'idea di una cucina nazionale”. Ricordando le parole dello statista Massimo d'Azeglio dopo l'unificazione nel 1871 (“Abbiamo fatto l'Italia; ora dobbiamo fare gli italiani” l’autore sferza il suo giudizio finale: “Se l'Italia è Eataly, come sostiene il negozio, allora la sua missione - legare gli italiani intorno a un’identità nazionale riconoscibile - è vecchia quanto l’i dea di un'Italia unita”. Alcuni anni fa, il London Review Bookshop ha chiesto a una giuria di scrittori, chef e storici del cibo: Esiste la cucina italiana?, ma non è stato raggiunto un consenso. “Se esiste qualcosa come un'essenza della cucina italiana, è immateriale e sta nel disaccordo produttivo: negli appunti manoscritti ai margini dei libri di cucina; negli atteggiamenti competitivi all'interno e tra le famiglie, i vicini e le località; negli adattamenti, basati sulla necessità, sui gusti mutevoli e sui nuovi ingredienti“. L’Italia è un luogo dove le persone parlano, e a volte discutono, di cibo. Questo atteggiamento non è affatto univoco in Italia, ma è vissuto lì, e in molte comunità italiane nel mondo, con una particolare intensità. “Un viaggio a Eataly lo illustra perfettamente. Sebbene ci sia molto da godere e, in effetti, molto da imparare, le complessità e le contraddizioni delle numerose culture alimentari italiane resistono al tentativo di essere catturate sotto lo stesso tetto. L’Italia, in fondo, non è Eataly. Non proprio”.

Raffaella Vitulano


Una politica dei prezzi forse troppo poco avveduta 
Anni di spese pazze e forse una politica dei prezzi poco avveduta hanno reso lo ’slow food’ un affare per pochi e non profittevole. Oscar Farinetti ha così ceduto il controllo di Eataly al fondo straniero di Andrea Bonomi dopo aver accumulato negli anni 7,5 milioni di euro di perdite, con un numero di visitatori drammaticamente sotto le attese. Investindustrial, fondo d’inve stimento che ha preso il controllo di Eataly (fondato nel 1990 con sede a Londra), è guidata dal finanziere Bonomi, nato e cresciuto a New York, doppio passaporto americano e svizzero. Newyorkese con casa a Lugano, il 57enne neo-padrone della catena dello slow food made in Italy è nipote di Anna Bonomi Bolchini, famosa nella Milano del secondo dopoguerra come “la sciura dei dané” per la sua determinazione imprenditoriale, dal mattone (opera sua la costruzione del Pirellone) alle banche, alle assicurazioni, fino alla fondazione del mitico Postal Market. Suo padre era Carlo Campanini Bonomi, che nel 1985 si vide sfilare il controllo della finanziaria di famiglia, la Bi-Invest, dall’allora presidente di Montedison, Mario Schimberni: per lo smacco decise di ritirarsi a Londra.

Ra.Vi.

Una formula di gusto non economicamente sostenibile 

Investindustrial avrebbe messo sul piatto complessivamente 340 milioni di euro (cifra rivelata da MilanoFinanza) per rilevare il 52% del gruppo e azzerare un indebitamento che pesa sui conti per oltre 200 milioni. Oggi il fondo di private equity di Bonomi gestisce un portafoglio di asset da 11 miliardi di euro - tra cui Jacuzzi ed Ermenegildo Zegna - con una forte impronta globale. Massimo Bernardi su “Scatti di gusto” associa suo malgrado Eataly alla parola flop: “Guardando ai freddi numeri si può dire che, sì, la creatura di Farinetti è un (mezzo) flop. Dei 237 milioni di indebitamentonetto 105 milioni sono stati chiesti e ottenuti con procedura semplificata e garanzia al 90% dalla Sace, società che fa capo al ministero dell’Economia. Corsie preferenziali non riservate a tutte le aziende italiane, senza contare che Eataly ha anche ricevuto sedi senza pagare l’affitto”. In Italia la formula di Eataly non si è rilevata economicamente sostenibile, coi prezzi da ristorante di lusso. L’anno scorso ha aperto il primo negozio nel Regno Unito. E ancora a Toronto, Boston, Dallas, Chicago, Los Angeles, Tokyo, Doha, Mosca, Istanbul. In progetto c’è anche l’approdo in Cina.

Ra.Vi.

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