Il keynesismo militare dello Stato non favorirà la ripresa economica


Lo abbiamo capito dopo la Conferenza di Monaco: le spese militari aumenteranno e a rimetterci saranno i sistemi di protezione sociale in tutta Europa. Stiamo dunque assistendo al ritorno del keynesismo militare come monito contro l’auto compiacimento della superiorità morale dell’Occidente nella difesa della democrazia ucraina. La guerra in Ucraina appare nella nostra coscienza come resistenza all’invasione, con l’Occiden te che gioca un ruolo di primo piano nella fornitura di materiale militare e nell’imposizione di sanzioni alla Russia, abbattendo di conseguenza il libero scambio internazionale, regolando i pagamenti internazionali e aumentando l’inflazione dei prezzi di cibo ed energia. Ma la guerra sta modificando anche il ruolo dello Stato nei paesi che sostengono la resistenza dell’Ucraina. Dobbiamo prima definirlo: il keynesismo militare è una politica economica che prevede una politica di stimolo fiscale come Keynes potrebbe sostenere . Ma laddove Keynes sosteneva di aumentare la spesa pubblica per elementi socialmente utili (infrastrutture in particolare), la spesa pubblica aggiuntiva viene assegnata all'industria degli armamenti e l’area della difesa è quella su cui l’ese cutivo esercita il controllo. Il conseguente incremento della spesa pubblica da parte dello Stato nel settore della difesa dovrebbe incentivare la crescita economica attraverso il conseguimento della piena occupazione. Esempi tipici del keynesismo militare, nei confronti delle politiche occupazionali, sono la Germania nazista durante la seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti e durante le presidenze di Franklin Delano Roosevelt e Harry Truman. Questa tipologia di economia è legata all’interdipendenza tra welfare e warfare state, nella quale il secondo alimenta il primo, in una spirale potenzialmente illimitata quanto pericolosa, dato che l’atmosfera e la retorica della guerra (così come della ricostruzione) possono essere strumentali a mitigare le pretese e i dissapori dei gruppi sociali mentre li fanno convergere verso l’interesse della nazione. La Francia di Laurent Berger non sta scegliendo questa opzione. Ma i contorni di questo nuovo ruolo degli Stati sono chiaramente delineati in un recente rapporto del London Financial Times (“War discovers hard reality of west’s capacity) in cui appare chiaro che la fornitura di materiale militare all’Ucraina sta esaurendo le scorte occidentali di armi, con poche prospettive di sostituzione immediata, come confermato alla conferenza di Monaco. “Il vincolo dell’offerta sulla produzione di armi occidentale deriva dal fatto che la fine della Guerra Fredda, all’inizio degli anni '90, ha dato origine a un dividendo di pace della riduzione della spesa per gli armamenti che ha ridotto la produzione di armi a una produzione snella just-in-time, con ridotti inventari di armamenti, e soprattutto di armi pesanti che hanno avuto un uso limitato nelle guerre antiterrorismo in cui l’Occidente è stato coinvolto dalla fine della Guerra Fredda” spiega Jan Toporowski, professore di Economia e Finanza presso la Soas ((Scuola di Studi Orientali e Africani) dell’Università di Londra. Dopo l’invasione russa dell'Ucraina, i governi occidentali si sono impegnati ad aumentare le spese per la difesa. Ma le loro industrie di armamenti, in condizioni di efficienza economica in tempo di pace, non hanno la capacità di riserva per aumentare la produzione. Molti lavorano già su turni 24 ore su 24 per soddisfare gli ordini in arrivo. Tuttavia, ciò è utile solo se le aziende produttrici di armamenti possono essere garantite da contratti per la durata prevista futura di qualsiasi nuova attrezzatura produttiva. Gli industriali interessati alla fornitura di armi ora si lamentano deltempo necessario per ottenere la firma dei contratti. Ma maggiore preoccupazione per loro deriverebbe dalla prospettiva dello scoppio della pace, che potrebbe lasciarli con una capacità produttiva inutilizzata che potrebbe dover essere rottamata (più o meno lo stesso dilemma è affrontato dai produttori di petrolio e gas naturale che sono sollecitati ad espandere la produzione per sostituire le forniture russe sanzionate). In breve - spiega l’analista - i produttori di armi vogliono che i governi garantiscano la redditività dei loro investimenti. Questa è precisamente l’alleanza tra industria bellica e Stato che ha costituito la base del keynesismo militare che l’economista polacco Michal Kalecki ha criticato negli anni ’50 dimostrando come, al culmine della Guerra Fredda, i governi occidentali abbiano sovvenzionato il capitale privato con contratti di armi pagati in realtà dai contribuenti. Questa disposizione è stata al centro di quella che è stata descritta, in modo forse un po’ fuorviante, come una “età dell’oro” da economisti eterodossi, che ne lamentano la sostituzione con il “neoliberismo”, in cui lo Stato retrocede attraverso le privatizzazioni nei settori strategici (comunicazioni, autostrade, energia, acciaio, etc.) mentre il deficit non diminuisce sia per via delle spese militari (che comportano una quota sempre meno trascurabile dei profitti aggregati) che per via della riduzione del gettito fiscale. Durante la fase del neoliberismo gli armamenti rimangono tuttavia strumentali anche “nel lungo periodo”, per la sopravvivenza e le eventuali espansioni economico- geopolitiche della società capitalistica quando i patti commerciali esauriscono la loro funzione. Il vero pericolo non starebbe però tanto nel neoliberismo ma nell’acquisizione dello Stato da parte di interessi industriali che non possono essere negati a causa delle minacce esterne ed interne alla democrazia. Lo Stato dunque abdica dal welfare e dai suoi compiti verso il cittadino per impegnarsi in una costante tensione bellica senza implicazioni sulla crescita della forza contrattuale del lavoro e un conseguente aggiustamento distributivo del reddito o della spesa. La rinascita di quello che una volta il presidente Eisenhower chiamava il complesso militare-industriale avvicina i nostri magnati industriali ai centri di potere politico. “Il keynesismo militare - conclude Toporowski - sfida i democratici sui limiti della democrazia per la quale si combatte in Ucraina. Il futuro di quella democrazia è assicurato da uno stato che garantisce i profitti industriali? O quel futuro richiede anche l’estensione dei diritti civili e del welfare a tutte le classi? Se la lotta per la democrazia è solo per salvare l’U craina per la democrazia, o per estendere la democrazia nelle sfere di influenza russa o cinese, allora quella lotta porterà l’Occi dente sulla strada del capitalismo oligarchico della Russia”.

La crescita degli investimenti nell’industria di guerra come modalità di fuoriuscita dalla crisi non aiuterà l’Europa né il ripristino di un livello di disoccupazione compatibile con le condizioni di profittabilità delle imprese considerate nel loro complesso. Inoltre, come spiegava Kalecki già nel 1943,“la disciplina nelle fabbriche e la stabilità politica sono più importanti dei profitti correnti” e quando le classi del reddito da capitale si sentiranno minacciate dalle istanze dei lavoratori, esse si schiereranno in difesa dei privilegi derivanti dalla proprietà di mezzi di produzione. Poiché la spesa viene dirottata dai lavori funzionali al pieno impiego all’in dustria bellica, la crescita degli investimenti militari implica un aggiustamento a ribasso dei consumi (provocato dall’abbassamen to dei salari reali), i quali scendono al di sotto del livello corrispondente alla piena occupazione. In altri termini, le famiglie vengono ridotte alla servitù e alla fame, poiché “la pressione politica sostituisce qui la pressione economica della disoccupazione”.

Raffaella Vitulano





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