C’era una volta la transizione verde


Eminenti scienziati di tutto il mondo hanno consegnato alle Nazioni Unite una sorprendente dose di realtà, che in realtà da tempo era un ingombrante elefante nella stanza: sta “divenendo inevitabile” che i paesi non raggiungano l’ambizioso obiettivo fissato otto anni fa per limitare il riscaldamento della Terra. Sulla stessa linea gli emiri, che non ci pensano proprio a scalfire i petrodollari. Ma basta guardare anche alla California per scoprire che uno dei sindacati più potenti dello Stato, The Trades, non allenta la presa sui posti di lavoro nel settore petrolifero. Con i funzionari federali che spingono per ottenere finanziamenti green il più velocemente possibile in vista delle elezioni del 2024, la riluttanza dei sindacati a rinunciare ai posti di lavoro legati ai combustibili fossili mina gli obiettivi climatici aggressivi dei democratici. I sindacati continuerebbero insomma a dare grattacapi ai democratici sul clima, dopo una presa di coscienza globale. I legislatori stanno infatti investendo miliardi nelle industrie rispettose del clima, ma la transizione occupazionale è in ritardo. Come costruire rapidamente enormi quantità di infrastrutture per l’energia pulita senza compromettere la manodopera? lavoratori di The Trades hanno beneficiato di accordi di lavoro a progetto con grandi aziende come Chevron, che garantiscono che i progetti siano gestiti da dipendenti sindacali che trattano su salari, benefici, orari e altri standard lavorativi prima che i lavoratori entrino in un cantiere. Questi accordi di contrattazione collettiva sono meno comuni nei settori delle energie rinnovabili, dove le aziende sono spesso restie a collaborare con i sindacati. Ed ecco che The Trades diventa un alleato chiave per l’indu stria petrolifera: lo scorso anno si è battuto contro la legislazione volta a creare una zona cuscinetto tra i pozzi di petrolio e gas e luoghi sensibili come casee scuole. Il sindacato si è anche opposto a un disegno di legge presentato quest’autunno nella legislatura della California che impone alle grandi aziende di segnalare le emissioni di gas serra attraverso le loro catene di approvvigionamento. Il disegno di legge è stato comunque approvato, ma l’opposizione dei Trades ha avuto più peso di quella delle compagnie petrolifere nella lotta contro maggioranza democratica sempre più progressista dello stato. La United Steelworkers, i cui membri gestiscono raffinerie di petrolio in tutto lo stato, ha approvato una tabella di marcia di transizione di 12 anni sviluppata da economisti dell’Università del Massachusetts Amherst, che propone alla California di spendere 470 milioni di dollari all’anno per sostenere i lavoratori licenziati dai lavori legati ai combustibili fossili. A ottobre, Usw si è unita a una nuova coalizione sindacale, comprendente sezioni della United Auto Workers, della Service Employees International Union e della Federazione americana dei dipendenti statali, provinciali e municipali, che ha pubblicato le priorità politiche tra cui la sostituzione salariale, la copertura sanitaria, la riqualificazione e il sostegno al ricollocamento per i lavoratori licenziati. Ma The Trades non è membro di quella coalizione sindacale e si oppone alle proposte che stabiliscono una tempistica per l’eliminazione dei combustibili fossili. Secondo il Dipartimentodell’Energia, la California ha circa 112.000 lavoratori nel settore dei combustibili fossili, rispetto ai 115.000 dell’industria solare. Un rapporto commissionato dal sindacato stima che una riduzione del 50% nei settori del petrolio e del gas entro il 2030 - come previsto dalla politica statale che miraalla neutralità del carbonio entro il 2045 - richiederebbe oltre 30 mila licenziamenti. A complicare il quadro, anche la lotta tra sindacati e aziende di energia rinnovabile nonché le divisioni della sinistra rispetto alle tecnologie emergenti che ricevono sussidi più generosi. I politici statunitensi e Wall Street, del resto, hanno sacrificato il tenore di vita e la ricchezza delle classi medie e lavoratrici negli ultimi 30-40 anni, accumulando miliardi nel settore della difesa e in quello bancario, nonostante le guerre siano una delle attività che generano maggiori emissioni di carbonio. Difficile bombardare e allo stesso tempo chiedere ai cittadini l’acquisto di un veicolo elettrico e un fornello ad induzione per “salva re il pianeta”. Per non parlare dell’enorme differenza di impronta di carbonio tra l’1% della popolazione mondiale più ricca e tutti gli altri. Ora, arrestare il treno merci dell’aumento del consumo di energia, inclusa la difficoltà di abbandonare i combustibili fossili, la troppo frequente incapacità di considerare i costi energetici totali (comprese le infrastrutture) e ambientali di una riduzione delle emissioni di carbonio, e la riluttanza a frenare il consumo di energia (attraverso la fissazione dei prezzi o divieti) è praticamente impossibile nel sistema neoliberista. La transizione verde sta aprendo gli occhi e si sta scontrando (era ora) con la realtà. Con la domanda di veicoli elettrici al di sotto delle aspettative, i produttori stanno riducendo la produzione e riacquistando invece le scorte. Gli sviluppatori di energia eolica offshore hanno annullato i progetti. Quest’anno l’indice S& P Global Clean Energy è sceso del 30%. La capitalizzazione di mercato di Ford è scesa a 42 miliardi di dollari. Come ben spiega l’economista francese Jean Pisani-Ferry in un rapporto commissionato dal primo ministro francese e pubblicato in inglese a novembre, “attri buendo un prezzo - finanziario o implicito - a una risorsa gratuita (il clima), la transizione aumenta i costi di produzione, senza alcuna garanzia che la riduzione dei costi energetici finirà per compensarli, mentre gli investimenti richiesti non aumentano la capacità produttiva”. Benvenuti nel mondo reale, lontano da slogan politici e da fanatismi di ogni colore. Pisani- Ferry stima che una famiglia francese della classe media spenderebbe il 44% del reddito disponibile annuo per una pompa di calore e il 120% per un’auto elettrica. Questi investimenti stimolano la domanda, ma non lasciano le famiglie in condizioni migliori poiché semplicemente fanno la stessa cosa di ciò che sostituiscono. E se le tasse aumentano per pagare questi investimenti, le famiglie si troveranno in condizioni finanziarie peggiori. Quando la curva del beneficio marginale sociale è più ripida della curva del costo marginale privato, prevalgono le restrizioni limitazioni della produzione. Per anni i costi dell’energia eolica e solare sono crollati, ma dal 2021 sono aumentati. La danese Orsted, la più grande società di sviluppo eolico del mondo, ha ricevuto una multa di 4 miliardi di dollari all’inizio di novembre per aver ritirato due progetti al largo del New Jersey. L’azienda oggi vale il 75% in meno rispetto all’inizio del 2021. ClearView Energy Partners stima che circa il 30% della capacità eolica offshore contrattata dallo stato sia stata cancellata e un altro 25% potrebbe essere riappaltato. Forse non sarebbe stato comunque facile ottenere un ampio sostegno sociale per un’azio ne concertata. Ma non è stato fatto alcun tentativo serio. Secondo il Fondo monetario internazionale, sarà possibile decarbonizzare l’economia globale senza mettere in crisi le finanze pubbliche. Ma un articolo del Financial Times frena gli entusiasmi. Le stime dell’Fmi presuppongono infatti un accordo globale per fissare un prezzo o una tassa sul carbonio e ridistribuire i proventi ai Paesi in via di sviluppo, eliminando anche gli attuali sussidi per i combustibili fossili. La realtà dei tentativi dei Paesi di decarbonizzare le loro economie è ben lontana da queste ipotesi. Nel frattempo, le entrate derivanti dalle tasse sul carbonio potrebbero non compensare la perdita di entrate dei governi. I pochi Paesi che hanno fatto i propri calcoli sui probabili costi della transizione verde prevedono un impatto maggiore rispetto all’Fmi.

Stanziamenti occidentali e attendismo del mondo arabo 

L’Office for Budget Responsibility del Regno Unito ha dichiarato già nel 2021 che il raggiungimento dello zero netto comporterebbe un aumento del debito pari al 21% del pil entro il 2050, con la perdita dell’imposta sui carburanti che rappresenterebbe il costo maggiore. Pisani-Ferry, che ha guidato un recente rapporto per il governo francese, ha stimato che potrebbe aggiungere fino a 25 punti percentuali di pil al debito pubblico entro il 2040. La Commissione europea ha annunciato un piano da 2,3 miliardi di euro per passare a fonti energetiche più pulite e sostenibili nei prossimi due anni. Lo ha dichiarato la presidente Ursula von der Leyen alla Cop28 a Dubai. Questo piano si aggiunge all’iniziativa Global Green Bond da un miliardo di euro presentata a giugno, con cui l’Ue e i suoi Paesi membri prevedono di investire “più di 20 miliardi nella cooperazione energetica solo in Africa”. Gli Usa stanziano 3 miliardi di dollari destinati al fondo per il clima, mentre la presidenza della Cop 28 ha annunciato che 116 Paesi si impegnano a triplicare la capacità di energia rinnovabile da qui al 2030. La strategia di adattamento adottata dal Consiglio di cooperazione di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar è invece quella di costruire resilienza attraverso la consapevolezza che il petrolio e il gas sono destinati a rimanere e che tuttavia l’intensità delle emissioni deve essere ridotta nel tempo. Dopo Microsoft, un’altra azienda fondata da Bill Gates chiude un accordo importante alla Cop28: è TerraPower, che ha firmato un memorandum con gli Emirati Arabi Uniti sui reattori nucleari avanzati.

Raffaella Vitulano


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