Giochi senza frontiere nell’instabilità


Dalla crisi finanziaria del 2008-2009, le “ conversazioni globali” che hanno luogo ogni anno tra leader economici, politici e sociali al World Economic Forum hanno avuto una tendenza ispirata politicamente a sinistra. L’opinione dell’élite occidentale sembrava destinata a spostarsi verso una maggiore fiducia nella pianificazione statale e meno nel potere dei mercati. Ma quest’anno a Davos è successo qualcosa di inaspettato. La saggezza convenzionale ha fatto alcuni timidi passi verso destra. Lo nota Walter Russel Mead in un editoriale sulla rubrica Global View del Wall Street Journal, il cui incipit sintetizza tutto: le élite globali cominciano a capire che lo statalismo non funziona e che il mondo ha bisogno dell’Ameri ca. Il World Economic Forum, del resto, è sempre una contraddizione di speranza e ansia pronto a spostare la direzione dell’ac qua per evitare pietre ed ostacoli. Il flusso dell’acqua è sempre la ricchezza, che deve alimentarsi di altra anno dopo anno per consentire a potenti e multinazionali maggior profitti. La versione di quest’anno sembrava il massimo del paradosso. L’umo re generale era economicamente tiepido, politicamente acido, entusiasta della tecnologia e nervoso per la sicurezza. Un frequentatore di Davos lo ha definito “ottimismo realistico”.
Un’altra “incertezza radicale” preferita, che potrebbe favorire un periodo di distruzione creativa e progressi notevoli - o semplicemente un periodo di distruzione privo di creatività. Quella stessa distruzione creativa che tanto piaceva all’ex premier Draghi, di cui lo stesso accennò nel saggio dei cinque presidenti nel lontano 22 giugno 2015 e poi riprese nel documento del G30 nel dicembre 2020. I magnifici cinque erano allora il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker; il presidente del Vertice euro, Donald Tusk; il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem; il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi; e il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz. Insieme presentarono presentato piani ambiziosi per l’approfondimen to dell’Unione economica e monetaria (Uem) a partire dal 1° luglio 2015 e per il suo completamento al più tardi entro il 2025. Il tempo stringe soprattutto per l’Europa e Draghi riappare, non a caso, sulla scena. Il messaggio da Davos degli americani e degli europei è stato chiaro: ambedue non faranno più affidamento su un paese o una regione per ciò di cui hanno bisogno. Gli Stati Uniti si sono presentati a Davos come una superpotenza solitaria che quest’anno potrebbe andare in due direzioni: qualunque sarà l’esito delle elezioni di di novembre, le prospettive di cooperazione globale sono limitate. Il tema della fiducia ha poi alimentato numerose conversazioni sulla democrazia e su ciò che gli elettori mondiali cercheranno nel 2024. In una parola: cambiamento. Quest’anno sono previste 50 elezioni - dall’Indonesia, India e Pakistan all’Unione Europea, Gran Bretagna e Messico e, naturalmente, gli Stati Uniti. Non c’è un’unica tendenza emergente e questo è in parte proprio radicato nel metatema della fiducia, poiché la pandemia ha scosso la fiducia di molte persone nelle istituzioni e ha plasmato una generazione emergente meno ottimista riguardo al futuro. Il cosiddetto “uomo di Davos” è messo nell’angolo per ora, umiliato, non sta conquistando il mondo con la facilità su cui pensava potesse fare affidamento. Sta supplicando il mondo di fidarsi di lui. Chi è l’uomo (o la donna) di Davos? Quello che “Politico” chiama “masto donte di alto livello composto da politici, e al loro seguito assortito, che spendono $ 1.000 a notte su un lettino in uno squallido hotela due stelle per sguazzare per le strade ghiacciate di questa città alpina per una settimana del World Economic Forum”. Dalle nevi svizzere si ode inoltre un gigantesco avvertimento, espresso a gran voce dagli europei:questa nuova era guidata dagli americani potrebbe differire dalle epochepassate in un aspetto cruciale e per loro pericoloso, nella sua tiepida visione della globalizzazione e dell’ordine mondiale liberale, e questo lirende molto ansiosi. La nuova ansia: l’America è tornata sulla scenamondiale, ma che tipo di America? Sul multilateralismo, attraverso la Nato o l’Onu, e sulla sicurezza in Europa, l’am ministrazione Biden si rifà a un altro secolo, non all’era Obama che ha dato inizio all’allontana mento dagli alleati tradizionali (che si sono tirati indietro davanti al “pivot to Asia” e al “perno verso l’Asia”) che Trump ha continuato. Ma il suo approccio al commercio, a una politica industriale che dia priorità al “reshoring” e al “buy American”, agli occhi di molti Davos, somiglia a Trump più di qualsiasi altro presidente recente. Questa continuità è ciò che fa percepire agli europei un conflitto con l’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti, che spingerà miliardi in sussidi all’industria americana, e con un Chips Act che cerca di rimpatriare la produzione di semiconduttori, hanno suscitato sgomento in Europa. Qualcuno in Francia e Germania ha drizzato le antenne da tempo e c’è chi oggi mette in allerta su un nuovo attacco nazista al potere globale americano - da parte degli europei già sconfitti almeno un paio di volte dagli Usa - per contrastare l’asse di Camp David. La guerra in Ucraina ha sconvolto gli equilibri e i giochi sembrano ormai schierare le alleanze. Così, se da un lato l’Europa franco-tedesca erede di Vichy flirta con Cina, Iran e Turchia; dall’altra ci sono Usa, Nuova Zelanda, Australia, Regno Unito, Israele, Italia, Egitto, Giappone. Arabia Saudita ed Emirati arabi rifiutano di accettare la domanda degli Stati Uniti di essere con loro o contro di loro. L’India, piuttosto ostile alla Cina, è amica contemporaneamente di Russia e Stati Uniti. In Gran Bretagna permane obiettivamente una frangia veterocoloniale che guarda con diffidenza agli Usa. Del resto, la famiglia Windsor, ossia la Londra regale, fino al 1917 si chiamava Saxe Coburg - Gotha ed era tedesca, successiva agli Stuart, legittimi eredi al trono inglese, cattolici. E non dimentichiamo le famiglie Rothschild (in linea britannica ed austriaca) e Rockefeller (ugonotti, francesi appartenenti alla famiglia Roquefeuille, che, per sfuggire all’inclemenza dell’editto di Fontainebleau, nel XVII secolo fuggirono in Germania), che provengono famigliarmente dalla stessa area tedesca di cui sopra. Dal lato opposto, basti pensare ad Alexis de Toqueville per capire come la pensano gli americani, fieri oppositori dei colonizzatori del vecchio continente, gente che da sempre predilige il merito ai privilegi di sangue. Le nuove alleanze vanno delineandosi e lo scontro di potere principale emerge dalla frattura Usa contro la Davos franco-tedesca con Londra a metà strada. E qui si pensi alle mosse di Tony Blair che snobba Klaus Shwab - per capirne la distanza di pensiero. Per un lungo periodo di tempo in Francia e Germania ha tenuto banco la possibilità di creare un “esercito europeo” per affermare l’indipendenza della Europa dagli Stati Uniti. E poi pensiamo alle follie di Bruxelles, alla transizione energetica che serve principalmente ad emancipare l’Ue franco-tedesca dagli Usa, e alla quale Washington sta ponendo un deciso freno. La transizione energetica nasconde in realtà enormi interessi geopolitici: la rivoluzione verde è sensata, ma i Davosiani puntano soprattutto a soppiantare il dollaro. La difficoltà a capire gli eventi va risolta riflettendo sul caos attuale di guerre e pandemie, su cui le élites dei vari paesi si scontrano per la supremazia su un’A merica che avrebbe esaurito il suo ruolo guida. Gli Stati Uniti, dal canto loro, non vogliono accettarere le nuove trasformazioni del’ordine mondiale. Graham Allison, professore ad Harvard, riassume perfettamente la situazione: “Gli americani sono scioccati dall’idea che la Cina non resti al posto che le era stato a suo tempo assegnato in un ordine internazionale diretto dagli Stati Uniti”. Il mondo è fluido e in divenire, e le alleanze presentano scelte à la carte, in cui magari vari paesi tendano anche a mettere Usa e Cina una contro l’altra, per ottenere il massimo dei vantaggi possibili. C’è chi, ad esempio lo storico Franco Cardini, vede peraltro delinearsi un “multipolarismo imperfetto”, “confuso, slabbrato, pieno di labilità e di incognite”. Un puzzle davvero complicato ed interessante, alimentato tuttavia anche da false flag e vera disinformazione che confondono i cittadini, gli unici che potrebbero frenare davvero con la loro coscienza una deriva altrimenti irreversibile. Il rapporto del Gruppo dei Trenta (G30) - think tank di consulenza su questioni di economia monetaria e internazionale fondato su iniziativa della Rockefeller Foundation nel 1978 - sostiene chiaramente che in caso di crisi non tutte le imprese vanno salvate. In un mondo fluido, occorre porre particolare attenzione alle pmi, che hanno minore potere contrattuale verso i governi ma che sono importanti sul piano produttivo. Ma per il G30 lo Stato deve intervenire solo in presenza di fallimenti del mercato. Inoltre, il G30 consiglia interventi misti pubblici- privati (sostenuti a Davos), perché solo le banche e gli investitori “hanno l’experti se per valutare la redditività delle aziende e sicuramente subiscono minori pressioni politiche”. In altre parole è il privato a dover decidere, perché, a differenza del potere pubblico, non deve rispondere a elettori che sono anche lavoratori e (potenziali) disoccupati. Le politiche statali - sostiene il G30 riprendendo la nota espressione dell’economista austriaco Schumpeter - dovrebbero “richie dere anche una certa quantità di distruzione creatrice”. Questo significa che bisogna lasciar ridimensionare o chiudere le aziende non in grado di andare avanti, sopportando quindi una elevata disoccupazione, affinché altre aziende innovative possano aprire. Distruzione creativa o terra bruciata, dunque? La differenza è molto sostanziale. Torna così in auge la distruzione creativa. Con questa espressione, negli anni 50’, l’econo mista austriaco Joseph Schumpeter indicò il “processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creandone sempre una nuova ”. Secondo Schumpeter, che si basava su un’atten ta lettura del pensiero di Marx, attraverso questo processo di distruzione creativa l’innovazione tecnologica produce crescita economica. Non bisogna quindi spaventarsi se qualche prodotto cessa di esistere, se qualche processo produttivo viene eliminato. Al loro posto, ci saranno prodotti più appetibili, processi produttivi più efficienti e meno inquinanti, lavori e mansioni nuovi. Secondo Schumpeter, la “burra sca di distruzione creativa” descrive il “processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall'interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creando sempre una nuova”. Il fatto, evidente ma adeguatamente taciuto, è che è semplicemente impossibile una trasformazione economica senza perdenti.


Raffaella Vitulano


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