Giorgio Armani, quel made in Italy confezionato da cinesi


Un laboratorio dove si realizzavano articoli di pelletteria, con due letti con coperte in un ufficio adiacente. Un dormitorio al secondo piano, raggiungibile tramite una scala con cancello, aveva una serie di letti a castello e un altro letto cosparso di vestiti e coperte. Le pentole erano ammucchiate in un bagno sporco accanto a un lavandino rotto e ad una pentola con acqua contenente quella che sembra essere un’anguilla.

Una cucina improvvisata comprendeva un fornello a gas accanto a un muro schizzato di cibo. Piatti sporchi e cibo non consumato erano ammucchiati nel lavandino. Il cartone era fissato con nastro adesivo sulle finestre. Lavoratori costretti a lavorare a ritmi estenuanti per oltre 14 ore al giorno, pagati 2-3 euro l’ora in alloggi squallidi e degradanti. Non stiamo parlando di una sconosciuta e minuscola provincia in Cina. La scoperta si inserisce nell’ambito di un’indagine più ampia sulla filiera della moda operante nelle province di Milano e Bergamo, che lo scorso gennaio ha posto sotto amministrazione giudiziaria il produttore di borse e accessori Alviero Martini Spa. Lavoratori cinesi sfruttati impiegati in Italia da un subappaltatore non autorizzato hanno realizzato borse e accessori anche per la griffe Giorgio Armani in una serie di abusi nella catena di fornitura che la società di produzione interna non sarebbe riuscita a monitorare adeguatamente. La polizia ha indagato su quattro fabbriche che operano illegalmente con condizioni di lavoro malsane e una serie di violazioni della sicurezza, compresi dormitori illegali con “condizioni igieniche e sanitarie al di sotto del minimo etico”. È stata così ordinata la chiusura delle fabbriche e ai quattro proprietari cinesi sono state inflitte multe e sanzioni amministrative per un totale di 145.000 euro (quasi 157.000 dollari). Non è il primo caso né sarà l’ultimo. Ma il nome della griffe coinvolta ha fatto scalpore anche sui giornali all’estero. In una intervista su Vogue del 31 marzo 2021 “Re Giorgio”, seduto su un divano in pelle coperto da una pelliccia di cincillà, tra una foto patinata di Annie Leibovitz e un maglione girocollo blu notte aderente raccontava i suoi peggiori incubi: il momento di una sfilata in cui si accorge di non avere abiti o una scogliera sopra uno spaventoso precipizio. Forse erano presagi, dopo la ristrutturazione non indolore della fabbrica di Settimo Torinese, tanto per citare un caso di manifestazioni operaie. Giorgio Armani è una delle persone più ricche nel mondo della moda. Il designer 89enne spende i suoi miliardi in yacht di 213 piedi, case in Italia, a Manhattan e nei Caraibi. Per chi fa dell’eleganza il suo stile di vita, questa è proprio una caduta di stile. Persino il Phnom Penh Post denunciava già nel maggio 2015 i costi umani dell’alta moda, raccontando come i dipendenti che cucivano i jeans Armani ricorressero a misure disperate pur di evitare di svenire nella lontana fabbrica Kin Tai Garment, nonostante una sentenza mai applicata che prevedeva irrigatori sul tetto rovente, mai installati. In Cambogia come in Italia, Mr. Armani non fa adeguati controlli. Non è certo la prima volta che si utilizza lo strumento della “amministra zione giudiziaria” (o a volte della misura interdittiva della pubblicità di beni e servizi, o altre volte ancora di sequestri preventivi) di fronte a presunti sfruttamenti di personale e pessime condizioni di lavoro. E’ stato il caso, ad esempio, dei pasti recapitati dai rider di Uber, per le consegne fatte da Dhl,per i libri movimentati da Ceva, per gli stand allestiti da Fiera Milano, per la logistica di Esselunga e Movimoda, per le pulizie delle stanze di hotelaffidate a Cegalin-Hotelvolver, per l’orto frutta di Spreafico& Fratelli, i salumi di Fratelli Beretta, i pacchi di Brt-Bertolini, Schenker, Gls, Geodis e Ups, ifarmaci di Chiapparoli, le bibite di Spumador, i vigilantes di Mondialpol, Sicuritalia, Cosmopol, Battistolli e All System. Grazie alle indagini, almeno 11.000 lavoratori hanno visto migliorare le proprie condizioni di lavoro. Aziende concentrate su un unico obiettivo: abbattere i costi e massimizzare i profitti sfruttando i lavoratori. Armani aveva vestito gli atleti italiani alle Olimpiadi 2022, lo ricorda anche il quotidiano cinese Global Times, puntando tutto sul made in Italy. Fatto in Italia, sì, ma magari da cinesi. E allora ti chiedi perché non acquistare direttamente a Prato, dove i designer cinesi si stanno facendo strada. O a Latina o Frosinone, dove ci sono comunque stilisti emergenti che disegnano capi decisamente all’a vanguardia. Certo, la ricerca sui tessuti è ancora rozza e il taglio non è perfetto, ma le idee ci sono. Una stilista tra loro, ad esempio, Jia-Li, è approdata addirittura nel centro di Roma. Ha inaugurato l’altro giorno la sua mini boutique in via delle Coppelle, a due passi dai palazzi del potere. I prezzi sono almeno un ventesimo di quelli che troveresti da Giorgio Armani. Ma i capi non hanno niente a che vedere con quelli dozzinali di Shein che inondano i deserti del sudamerica quando vanno in discarica. Le due aziende subappaltatrici, una di Milano e una di Bergamo (Manifatture Lombarde e la Minoronzoni srl di Bergamo, che produce cinture anche per Trussardi, H& M e Zara,Gap, Banana Republic, Ralph Lauren), non sono indagate. I giudici scrivono tuttavia nel decreto di amministrazione giudiziaria che “l’azienda fornitrice dispone solo nominalmente di adeguata capacità produttiva e può competere sul mercato solo esternalizzando a sua volta le commesse ad opifici cinesi, i quali riescono ad abbattere i costi ricorrendo all’impiego di manodopera irregolare e clandestina in condizioni di sfruttamento”. Aziende con numeri significativi quelli dei due fornitori della società di Giorgio Armani, ma evidentemente non tali da consentire ai loro proprietari di non subappaltare le commesse ai cinesi, con tanto di lavoratori sfruttati. Cinese è, appunto, un testimone citato dal “Corriere”: “Ricordo che dal 2003 al 2010 lavoravo come azienda “Confezio ni Angela” per la Minoronzoni di Bergamo. All’epoca la “Con fezioni Angela” assemblava cinture dei noti marchi (…). La Minoronzoni ha contratti di appalto per la produzione delle cinture e dei prodotti, per questi contratti rimette direttamente la fattura agli stessi marchi come se la merce fosse stata prodotta e assemblata da lei stessa. Per ogni cintura confezionata la Minoronzoni paga più o meno 60 centesimi, il costo di manifattura e confezionamento, rimettendo poi il prodotto con apposita fattura ai committenti con ricarico di materiale prodotto, manodopera e confezionamento e trasporto per circa 15 euro a cintura”. E sulle condizioni di lavoro la testimonianza prosegue: “Un giorno si presentarono degli agenti di controllo qualità di un marchio molto importante, ma un’impiegata della Minoronzoni ci fece nascondere in un angolo dell’ufficio a luci spente”. Da un diagramma diffuso dalla polizia risulta che il subappaltatore cinese è stato pagato 93 euro (100 dollari) per una borsa che la casa di moda ha venduto per circa 1.800 euro (circa 1.950 dollari). Il subappaltatore autorizzato, che fungeva da intermediario ma senza reali capacità produttive, è stato invece pagato 250 euro per la stessa borsa, intascando 157 euro per ciascuna borsa. Per la polizia “il sistema consente di massimizzare i profitti (in cui) la fabbrica cinese produce effettivamente i prodotti, abbassando i costi del lavoro ricorrendo a lavoratori in nero e illegali” . Ambienti malsani, eppure Re Giorgio che ha studiato medicina dovrebbe sapere che quelle condizioni igieniche fanno male a chi ci vive. E che le tartine griffate nei suoi shop poco si accordano con anguille puzzolenti e ciotole di riso sfatto. I miliardari dell’industria della moda che amano i soffitti affrescati degli uffici del signor Armani dovrebbero capirlo. Cominceranno a farlo gli investitori? E pensare che nel 2011 Armani era diventato il primo designer di lusso ad accettare la Green Carpet Challenge di Livia Firth per evidenziare la moda sostenibile, disegnando un vestito per lei (e lo smoking del suo allora marito, l’attore Colin Firth) con plastica e tessuti riciclati. “Senza valori come il rispetto e la compassione, la sostenibilità non esiste”, sottolinea la fondatrice di “Eco-Age” . Durante un after-party un altro miliardario, François-Henri Pinault, che gestisce il colosso della moda Kering, e sua moglie, Salma Hayek, passarono le dita sul suo vestito, meravigliandosi che sembrasse seta. La Firth ritenne che il potere aziendale di Armani lo avesse messo nella posizione di esercitare pressioni sugli altri affinché ne seguissero l’esempio in materia di sostenibilità e di lavoro equo . Oggi forse non direbbe altrettanto. Dopo il crollo di Rana Plaza, nel 2013, Andrew Morgan mandò all’attivista Livia Firth una mail che praticamente diceva “ehi voglio fare un documentario su quello che è successo e mi hanno detto che devo parlare con te”. Lei lo invitò in ufficio a Londra e da quel momento sono stati inseparabili. “The True Cost è stato fondamentale - spiega Firth - per portare alla luce la gigante storia di sfruttamento che è dietro i vestiti che indossiamo. E che va avanti ancora oggi, ancora peggio infatti. In Bangladesh gli scioperi dei garment workers sono stati violentissimi, e sono scesi in strada solo per chiedere l’aumento del salario minimo (che da $74 dollari al mese è stato aumentato a $114)”. E ancora: “In dossiamo tutti giorni vestiti e accessori che toccano dalla deforestazione dell’A mazzonia e il sopruso di popolazioni indigene, allo sfruttamento di milioni di persone che lavorano nelle filiere e inquinamento di tutto quello che beviamo e mangiamo. Ma alla fine è una lente, e non possiamo usarla in maniera miope o ristretta, altrimenti rischiamo l’auto celebrazione”.


Raffaella Vitulano

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