La crisi della democrazia e l’avvento della tecnocrazia

 di Raffaella Vitulano

Tutto cominciò nel 2011 con l’elogio del loden, l’altra faccia del bipolarismo maggioritario, e con il cucciolo Empy messo in braccio in diretta televisiva al portatore di loden amante del Mercatone Ue ed odiatore dell’“eccesso di democrazia” in Europa di cui scriveva insieme a Sylvie Goulard. Fu quello il momento in cui cominciò l’opera zione simpatia dei tecnici al governo, dei SuperMario e dei partiti messi ko. Del resto, nel saggio “The Crisis of Democracy” a cura della Commissione Trilaterale veniva già scritto decenni fa quanto un eccesso di democrazia stesse paralizzando gli Usa e l’Europa, sottolineando che “il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi”, di una popolazione di dimensioni variabili che stia ai margini e che non partecipi alla politica: “E’ intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene”. Negli ultimi anni siamo stati travolti dal disorientamento dei valori e da un processo di svuotamento del ruolo decisionale delle istituzioni politiche democratiche a favore della logica di mercato e di quello che il sociologo britannico Colin Crouch ha recentemente definito “il potere dei giganti” economici sui cittadini, che in tempi di pandemia hanno espresso un sentimento di insicurezza accompagnato dalla domanda di maggiore autorità. C’è una percezione crescente della crisi delle democrazia in tutto il mondo; secondo Steven Lavitsky e Daniel Ziblatt, autori del saggio “Come muoiono le democrazie”, ciò che maggiormente stupisce è il fatto che, a differenza del passato, in cui la “morte” delle democrazie era causata da rivoluzioni o da colpi di Stato perpetrati da gruppi armati, oggi essa è invece determinata da un processo messo in atto dall’interno delle stesse istituzioni democratiche, con mezzi legali e per iniziativa di leader eletti: perdita di potere, vuoto di potere, presa di potere. L’ex premier Monti era stato molto chiaro: “E’ chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale possono essere pronti a queste cessioni (ndr: di sovranità) solo quando il costo politico e psicologico del non farlediventa superiore al costo del farle perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata. Abbiamo bisogno delle crisi per fare passi avanti”. E quale crisi migliore di una pandemia?

La concezione di Monti e delle élites che rappresenta è esattamente quella di The Crisis of Democracy, il primo rapporto della Commissione Trilaterale che sosteneva come le uniche democrazie funzionanti siano quelle in cui la grande maggioranza della popolazione si trova ai margini del dibattito pubblico. Letteralmente, i cittadini dovevano restare in apnea. Il Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale ( The Crisis of Democracy: On the Governability of Democracies) é uno studio del 1975 scritto da Michel Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki, commissionato dalla Commissione Trilaterale e pubblicato nello stesso anno come libro. L’edizio ne italiana fu invece curata nel 1977 e pubblicata con la prefazione di Gianni Agnelli. E questo è un fatto. Lo studio osservava la condizione politica degli Stati Uniti, dell’Europa e del Giappone, affermando che i problemi di governabilità “nascono da un eccesso di democrazia” rievocando che in realtà “già Schumpeter stabiliva che tra le condizioni per il funzionamento corretto della democrazia vi fosse l’autocontrollo democratico, cioè la rinuncia, da parte dei cittadini elettori, a tentare di influire attraverso manifestazioni, petizioni o pressioni di altro tipo, sull’ope rato degli eletti”. Il rapporto segnò un cambio di passo in tutto il mondo per risolvere le crisi delle democrazie con l’introduzione di tecnocrazie, non facendo mistero che “il predominio dell’esecuti vo, grazie al surplus di sovranità di cui esso strutturalmente dispone grazie al potere di segretazione, sposta in suo favore quell’equili brio che, nella forma di governo parlamentare, dovrebbe sempre sussistere tra Parlamento e Governo, e quindi tra rappresentatività e governabilità”. È stato osservato da alcuni critici che molti membri della Commissione Trilaterale ebbero successivamente ruoli di primo piano nell’amministrazione Carter, che fu fortemente influenzata da questo studio. In particolar modo Zbigniew Brzezinski ripresentò le conclusioni di The Crisis Of Democracy in articolo per il St. Petersburg Times. Noam Chomsky, dal canto suo, citò questo studio come esempio dellepolitiche oligarchiche e reazionarie sviluppatedal “vento liberista delle élite dello stato capitalista”. Oggi siamo oltre la Crisi della democrazia, della rappresentanza. Per il politologo Giorgio Galli, uno dei padri della scienza politica italiana dal secondo dopoguerra ad oggi, a preoccupare oggi deve essere il crescente potere decisionale delle multinazionali. In altri termini, assistiamo al trionfo di quel “capitalismo finanziario” già intravisto a inizio del ‘900 dal teorico social-democratico Rudolf Hilferding: quello che oggi chiamiamo “turbocapita lismo” (Edward Luttwak) o “capi talismo d’azzardo” (Susan Strange), che vede come protagonisti assoluti nei processi di allocazione delle risorse, materiali e immateriali, imprese, banche, società finanziarie, organizzazioni e network internazionali. In Italia - analizza Formiche. net - stiamo sperimentando, per la prima volta da quando si è radicata l’idea di democrazia, l’Epistocrazia, almeno in versione contemporanea. Le tradizionali istituzioni della Democrazia continuano ad esistere ma hanno ceduto una parte (quantitativamente) minima ma (qualitativamente) importante delle proprie funzioni ad un gruppo ristretto di competenti. Ceduta nel senso che il Parlamento ha accettato di farlo senza un preventivo dibattito. Per Galli è necessaria una “mossa dall’alto”, che ridisegni meccanismi e canali della rappresentanza democratica: estendere e potenziare il voto dei cittadini prevedendo per essi il diritto ad eleggere una parte del consiglio di amministrazione delle multinazionali, poiché è questa oggi la sede in cui si esercita in ampia misura il potere decisionale e si definiscono i grandi indirizzi delle scelte pubbliche. Se il tema di oggi è - come qualcuno scrive dopo i fatti di Roma nello scorso sabato - stroncare l’eversione e riconquistare il popolo alla democrazia, sarà bene allora comprenderne i limiti e l’interpretazione delle élites.

13 ottobre 2021





The Economist: su 167 paesi solo 22 hanno democrazie piene 

Secondo i dati raccolti da Freedom House - ong internazionale che conduce attività di ricerca e sensibilizzazione su libertà politiche e diritti umani - la democrazia è in recessione da oltre un decennio con una perdita progressiva di paesi che fanno passi indietro. Si parla non a caso di “democrazia in ritirata” in un rapporto uscito a fine 2019 che traccia uno scenario poco consolante: dei 41 paesi che sono stati costantemente classificati liberi dal 1985 al 2005, 22 hanno registrato una flessione del punteggio netto negli ultimi cinque anni: “Tra il 2005 e il 2018, la quota di paesi non liberi è salita al 26% , mentre la quota di paesi liberi è scesa al 44% ”. Causa di questa brusca inversione di marcia è da rintracciare, per la ong, nell’“espansione euforica degli anni ’90 e dei primi anni 2000” seguita da un esaurimento di questo slancio. Stesso bilancio anche secondo l’ultimo Democracy Index, riferito al 2019, elaborato dal settimanale britannico Economist: su 167 paesi analizzati solo 22 vengono definite come democrazie piene, un risultato che si classifica come il peggiore dal 2006, l’anno in cui è partita questa rilevazione. Ciò significa che oltre un terzo della popolazione mondiale vive sotto regimi autoritari.

Ra.Vi.

Non solo Trump. Negli Usa il declino comincia in responsabilità precedenti 

In un articolo di Wired si fa riferimento ad un fondo del Washington Post in cui l’opinionista Jennifer Rubin spiega come, dopo 50 sessioni di ascolto in tutto il paese, la commissione sulla pratica della cittadinanza democraticaorganizzata dall’Academy of Arts & Sciences -composta da accademici, figure dei media, imprenditori e filantropi di un ampio spettro ideologico - ha formulato 31 raccomandazioni per la democrazia del futuro. Fra queste, fa notare Rubin, si legge che “le fondazioni filantropiche spendono solo l’1,5% dei loro fondi collettivi in sforzi per migliorare e riformare la democrazia e stanziano solo una piccola parte di quella misera cifra per sostenere i leader civici”.

Ma il “declino della libertà statunitense” non inizierebbe con Trump: “I precedenti presidenti hanno contribuito alla pressione sul nostro sistema violando i diritti dei cittadini americani. Programmi di sorveglianza come la raccolta in grande quantità di metadati, inizialmente intrapresi dall’amministrazione George W. Bush, e l’eccessiva repressione dell’amministrazione Obama sui leak sono due casi emblematici”. Insomma, come spiega l’Economist, gli Stati Uniti del 2020 sono una flawed democracy, ovvero una democrazia imperfetta.

Ra.Vi.


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